“Ciminiere e ciminiere… il Biellese”, la nostra industria nel 1933 [Danilo Craveia, “Eco di Biella”, 16 marzo 2020]
Tra belle foto, stereotipi e retorica di regime
Nel volume “Come li ho visti – Viri ac res” (quasi) tutto il Biellese
Un librone littorio per celebrare tutta l’industria del Nord Italia
La copertina del primo libro, realizzata, come le altre due, da Gino Peroli.
“Prima di descrivere, sia pure a larghi tocchi, la sagomatura agile e potente dell’industria biellese, che raccoglie nei suoi laboratori, nei suoi opifici, nei suoi mille uffici di ogni genere il fiore e l’intelligenza di questa rude razza piemontese che sa lavorare con severa costanza, dobbiamo parlare della cornice che accoglie in suggestivo contorno l’attività di questa plaga, che può essere considerata una delle più belle e tipiche d’Italia, adagiata com’è ai piedi del grande arco alpino che la cinge di una corona di severa e regale bellezza”. Inizia così il capitolo “Ciminiere e ciminiere… il Biellese”, ventisei pagine tutte dedicate alla industria nostrana all’interno del trittico “Come li ho visti”, sottotitolato “Viri ac res” o “Nunc animis opus”, pubblicato da Gino Peroli (1893-1974) nel 1933 (un volume diviso in tre libri, tutti dedicati a Mussolini).
Il ritratto di Mussolini, anche questo di mano di Gino Peroli.
Il cospicuo tomo, di ampio formato e con sovraccoperta in pergamena dipinta in oro, è una pubblicazione singolare, un prodotto editoriale difficilmente definibile. Tra il celebrativo e il didascalico, tra lo statistico e il divulgativo, tra lo storiografico e l’iconografico, è sicuramente un librone che non ha avuto particolare fortuna dal punto di vista della conservazione biblioteconomica, dato che se ne conoscono non tantissimi esemplari, e nemmeno in libreria, visto che le copie erano rigorosamente numerate: 2.500 + una cinquantina per i vip. È abbastanza raro, in effetti, solo una mezza dozzina di biblioteche in tutta Italia dichiarano di averlo, e a quanto pare a Biella non c’è. Anche la datazione presenta qualche incertezza, perché il volume uscì senza data. Ma grazie ad alcuni riferimenti testuali è stato possibile indicare il 1933 (prima dell’autunno) come data certa di pubblicazione (in rete si trovano informazioni imprecise). Il volume celebra l’Italia e l’italianità attraverso la sua arte, “luce che illumina il mondo”, la sua scienza, “infaticabile e infaticata scrutatrice delle tenebre”, i suoi sportivi, “campionissimi del cielo e delle arene”, la sua industria e il suo commercio, “dagli albori della storia alla modernità”, la sua aeronautica, fatta di “saette vittoriose in ogni cielo”. Il lavoro del Peroli fu edito dalla “Italica Editoriale” di Milano (stampato dalla Cisalpina e legato dalla Torriani & C., mentre gli zinchi furono realizzati dalla “Fotoincisione Fratelli Altimani”).
La copertina del secondo libro, quello dedicato all’industria, dove si tratta anche del Biellese.
Il Biellese sta praticamente tutto nel secondo libro, quello incentrato sull’industria e sul commercio. Da quelle pagine emerge con chiarezza che, all’epoca, l’industria italiana era tutta al Nord. Quindi si possono leggere anche come una involontaria, ma netta “denuncia” dell’arretratezza meridionale. Concentrando l’attenzione su quel secondo libro si scopre che si tratta di una presentazione narrativa e molto retorica del settore industriale nazionale in un momento particolare: quasi all’acme del consenso per il Fascismo, ma poco prima dell’Impero, ancora senza sanzioni cioè al netto dell’autarchia (anche se, di fatto, già in essere come atteggiamento politico), ma anche ancora autonoma rispetto alla Germania, anzi avversaria della politica aggressiva di Hitler. Con un vasto corredo iconografico recuperato da elementi esistenti (come il famoso album Rivetti, ampiamente noto), ma anche con qualche scatto “nuovo”, il capitolo incentrato sul Biellese merita un’occhiata in dettaglio. L’incipit del “fascicolo”, citato all’inizio di queste colonne, è un omaggio lirico. Un bozzetto riuscito. Ma poi l’autore dei testi (che dovrebbe essere anche il disegnatore delle illustrazioni) sviluppa un’omelia di maniera, tronfia, sproporzionata e edulcorante della “fascistizzazione” effettiva della Biella dei 50.000 operai (bei tempi…). Se si vuole confondere a tutti i costi il lavoro con l’ideologia fascista, allora ci si può sbagliare. Ma i biellesi tessitori tessevano già prima del Duce (non è stato certo un suo merito se il Biellese era quel che era), durante il Duce e, ovviamente, dopo il Duce. Il Peroli abbozzava una oleografia di fervente operosità pacifica a fronte di un territorio ben più inquieto. Inquieto perché intelligente, consapevole di se stesso dopo decenni di quella “lotta” (esperienza mancata altrove) che porterà poi Biella a brillare tra le città resistenti. Il Biellese non era così inquadrato come l’autore voleva dare a vedere. Già, perché “inquadramento” è la parola d’ordine dell’intero volume e ricorre spesso nelle pagine, come se inquadrare fosse il senso stesso del Fascismo. “Inquadrare è uno dei compiti più poderosi, una delle missioni più profondamente ardue e comandate dal genio della stirpe”. Scopo dell’opera, infatti, era quello di rendere omaggio “alla essenza dinamica, al moto propulsivo e travolgente dell’Inquadramento”. Come se i biellesi non fossero già di loro quadrati e inquadrati da una dedizione al lavoro che spesso si associa al Calvinismo, ma non al Fascismo. Tuttavia, quell’evocazione d’esordio del nostrano carattere spigoloso, ma assertivo e fattivo, è la riproposizione di un cliché. Anche il Peroli aveva bisogno di inquadrare, di definire senza sbavature caratteri e tratti, a costo di spacciare caricature e sciapi stereotipi. D’altro canto, lui era un illustratore, un ritrattista e con le parole non ci sapeva fare. Il testo, ammesso che sia stato scritto da lui (potrebbe essere anche di altra mano, forse quella di Guido Mattioli) zoppica un po’, tra incertezze lessicali, refusi e ripetizioni. Ma è comunque “pittoresco”, non annoia e dà qualche informazione valida. Ovviamente comincia con l’UIB allora fascista, in quanto ente di inquadramento per definizione. Il primo “volto” biellese è quello volitivo di Leone Garbaccio, definito come “esponente cerebrale” dell’Unione Fascista dell’Industria Biellese. La fraseologia da secondo futurismo a volte incespica nel suo stesso galoppo semantico, ma è curiosa la descrizione del “Garbasciun”, un vero e proprio santino… D’altronde, l’agiografia in orbace è tutta da scoprire, un empireo di angeli e beati da tener testa alla “Bibliotheca Sanctorum”. Dopo l’UIB ecco l’Ente Biellese Assistenza Operai (l’assistenzialismo paternalista come vessillo del regime). L’EBAO era in anticipo sui tempi, come in generale l’assetto tra capitale e lavoro nel Biellese, visti i pregressi. Il Biellese era un incubatore socio-economico e culturale che non poteva passare inosservato a tutti i livelli e che, ben di più di centri maggiori, sperimentava più o meno consapevolmente dinamiche sociali inedite altrove o quasi. Ovviamente a tutto questo il cappello fascista calzava a pennello. Anche in una narrativa così sbilanciata e parziale ben oltre il limite della decenza intellettuale, non si poteva non riconoscere che qui tutto funzionava (ma avrebbe funzionato anche senza fasci littori e tutta la prosopopea di regime). Certo, anche qui i “rossi” avevano fatto sentire la loro voce ed era una voce che gli industriali avevano imparato a riconoscere e, per certi versi, a non ignorare, ma Biella non era la Milano di Bava Beccaris e neanche la Torino di Pierino Delpiano. Qui il “Patto della Montagna” vigeva già, non scritto, da molto tempo, e dei fascisti nessuno, qui, ha mai sentito davvero la necessità. La “cultura” fascista e la sua mistica d’accatto non avevano fatto presa su quel famoso carattere rude e operoso dei biellesi e l’autore del libro raccontava una favoletta, osservava una fotografia con il filtro annerito dall’ideologia, ma nulla di più. Tuttavia, il valore storico dell’operazione editoriale e del focus sul Biellese non deve essere sottovalutato. Dopo Leone Garbaccio, ecco Giulio Caucino, reduce di Fiume, dannunziano anche nel piglio ardimentoso. Ispirato anche il suo ritratto di apostolo fascista. A seguire, stranamente considerando il tipo di libro, c’è anche un po’ di spazio per Oropa. Brevemente raccontata per immagini, l’Oropa di “Come li ho visti” è meccanica e tecnologica: tramvia e funivia in primo piano. Però è importante rilevare che qualcuno deve aver segnalato al Peroli che non si poteva illustrare il Biellese (anche sotto il profilo industriale) senza includere Oropa. Fatta quindi la cornice “sacrale” e simboli, nella quale l’UIB faceva anche la parte della Camera del Lavoro socialista (che i fascisti avevano ovviamente chiuso), ecco i “pionieri e realizzatori”. La descrizione è “concentrica”: parte da Biella e si amplia verso il circondario, ma non è solo laniera. Una premessa esplica la volontà di non redigere una lista sulla base della “potenza” delle singole realtà industriali, bensì l’intento di offrire una panoramica uniforme. “Iniziando la rassegna delle formidabili industrie Biellesi, partiremo da Biella, seguendo un itinerario puramente turistico, che ci porterà via via in Valle Strona, in Val Ponzone, in Valle Sessera, in Valle Sesia e in fine in Valle del Cervo, tutte amene e fervide di attività prodigiosa”. Già a questo punto appare evidente che il “censimento” del Peroli non fu affatto puntuale. Anche la Valle Elvo avrebbe avuto qualcosa da dire, no? Anche solo per i Piacenza di Pollone e per le Officine di Netro, ma le scelte dell’autore risultano discutibili non solo in questo passaggio. “Nessun criterio, dunque, di graduatoria d’importanza e nemmeno di preferenza nell’ordine descrittivo dei vari opifici; tanto più che essi sono tutti degni di attenzione e di rilievo per la ricchezza degl’impianti e dei mezzi, per la poderosa attrezzatura e per l’ardente forza di propulsione che li anima”. Ma chissà perché, l’avvio fu dato con i Rivetti… Il Lanificio Giuseppe Rivetti e Figli era “il maggior organismo dell’Industria Laniera Biellese”. Ciò detto, si poteva procedere con una presentazione della ditta con il solito tono discreto: “quattro stabilimenti immensi dove le macchine vanno senza un attimo di sosta, milioni e milioni di tessuti che si spargono per tutto il mondo, legioni interminabili di operai, attrezzatura formidabile e precisa sia nel punto tecnico che da quello organico; ecco la sintesi di ciò che rappresenta questo nome per Biella e per l’Italia”. Non manca qualche incidente ortografico, come non manca il richiamo alle “legioni”. Fin dalle righe introduttive del libro la visione “marziale” è nitidissima. “L’Italia ribattezzata nel sangue, temprata sull’incudine della sua macerazione, ha ora i suoi legionari che marciano fatalmente verso la rinascita. Non hanno scoramenti, non conoscono tregue, avanzano trionfanti verso una meta, che è quella agognata dalla Patria multanime”. E descrivendo gli stabilimenti Rivetti la retorica bellica ritorna. La metafora fabbrica-guerra è una tentazione irresistibile per chi, allora, si misurava con lo storytelling di propaganda. Produrre molto e commerciare a poco sottraendo mercato significava vincere. Il dumping era un’accusa che non faceva arrossire chi doveva competere con la perfida Albione che era sempre stata abituata a stabilire regole d’onore più che altro per gli altri e a infrangerle se appena conveniente. Nessuna lezione da nessuno. Gli operai erano i soldati di quel conflitto che dai campi di battaglia si era solo spostato in altri contesti. La Grande Guerra era ancora molto vicina e proprio in opifici come quello dei Rivetti si era applicato il massimo sforzo degli invitti tessitori del grigioverde vittorioso.
Il terzo libro, quello incentrato dell’aeronautica.
Per uno come Gino Peroli la scelta di quei termini e di quel periodare da dispaccio da prima linea era un imperativo morale. Lo stesso approccio per delineare la storia dell’azienda e la sua ramificazione produttiva, con le sue “filiali” di Sordevolo e Beverate, dove si effettuava parte della tessitura (le due unità produttive “esterne” erano gestite dalla Società Anonima Textor), con lo sviluppo verso la “confezione standardizzata di abiti per uomo” in società con la Società Anonima Donato Levi di Torino (l’embrione del GFT, quando si poteva ancora concepire un’impresa di successo con validi partner ebrei…) per raggiungere “tutti i grandi magazzini italiani” e con gli uffici di Milano, tutti dedicati all’organizzazione dell’export. Ma Rivetti voleva dire anche Pettinatura Italiana di Vigliano. Lì sorgeva il loro quarto stabilimento che, però, non furono i Rivetti a costruire e ad avviare. Ragion per cui l’autore giudicò opportuno tributare il giusto onore a Felice Trossi, soprattutto verso il welfare. “L’opera attiva e feconda di Felice Trossi ebbe modo di rivelarsi come quella di un benefico realizzatore di tutte quelle opere che furono dette più tardi assistenziali e che egli instaurò nel suo stabilimento e nelle sue aziende agricole assai prima che il Fascismo venisse a consacrarne la necessità, per l’elevazione morale e culturale delle masse”. Se non altro, non tutta la Storia fu plasmata a immagine e somiglianza dell’epopea in orbace. Come detto in generale, in particolare Felice Trossi non aveva avuto bisogno dei fascisti per darsi da fare nel sociale e, strettamente, neanche altri imprenditori biellesi. Gli stessi Rivetti erano quello che erano per le loro capacità e il loro successo era una bandiera che il Fascismo sventolava volentieri, ma non era grazie al Fascismo che quel successo si era verificato. Il che non li santifica e non ne sminuisce le forti connivenze con il regime mussoliniano, ma a Cesare è dovuto il giusto, non meno, ma neanche di più. Il resto di quel Biellese industre la prossima settimana.