“I capitani d’industria nella mistica fascista, da Boglietti a Fila” [Danilo Craveia, “Eco di Biella”, 23 marzo 2020]
“Ciminiere e ciminiere… il Biellese”, la nostra industria nel 1933
Da Boglietti a Bozzalla & Lesna, da Ettore Barberis ai Fila
Ritratti di impreditori-paladini della rinascenza littoria della Patria
Il ritratto di Leone Garbaccio realizzato da Gino Peroli.
Il capitolo dedicato al Biellese nel volume del Peroli, che abbiamo iniziato a sfogliare la settimana scorsa, introduce con la forza delle immagini e, più ancora, delle parole quella condizione di “autarchia culturale o intellettuale” che ha preceduto le contingenze internazionali che hanno portato il Regno d’Italia a subire le sanzioni economiche e a sviluppare l’autarchia come strategia di sopravvivenza per la nazione. L’esaltazione della eccellenza artistica, culturale, industriale, sportiva ecc. dell’Italia di allora esplicitava un’istanza di autodefinizione cui il percorso postunitario non aveva saputo dare risposta. La Grande Guerra aveva in parte fornito elementi di coesione e di identificazione nazionale, ma aveva scompaginato l’essenza politica del paese con quel noto crescendo di tensione che aveva portato i fascisti al governo. Il tema del “fare gli italiani” era tutt’altro che svolto e anche le iniziative editoriali sul modello di “Come li ho visti” cercavano di dare un contributo evidenziando forze, anzi potenze che gli italiani dovevano ancora scoprire come proprie, per prendere (auto)coscienza di sé e per deporre inutili, anzi prive di fondamento, sudditanze psicologiche verso le altre nazioni. Tornando quindi alle nostre ciminiere, ecco il Maglieficio Boglietti (stabilimento di Biella e di Occhieppo Superiore), con i suoi 750 dipendenti (che potevano diventare 1200, “quando venga chiesto ai reparti il massimo sforzo possibile”. Degna di particolare nota era la macchina atta a produrre la maglia «Sensitiva», macchina “che permette una produzione di una morbidezza ineguagliabile e che offre la caratteristica veramente notevole di produrre maglia insmagliabile. Questa macchina è stata studiata e creata dal Signor Maggia, che guida e dirige il Maglificio Boglietti con rara abilità da parecchi anni”. E Gino Peroli aggiungeva: “Attualmente il Maglificio può arrivare a produrre ben 15 mila capi di maglieria al giorno con una varietà che va dalla stoffa per giacca da uomo alla stoffa per abito da signora, dalla corpetteria intima agli eleganti pull-overs sportivi; dai multicolori costumi da bagno ai capricciosi berrettini da uomo e da signora, a tutti gli innumerevoli prodotti che sono richiesti dalla nostra complicata vita moderna”, senza dimenticare la produzione di maglia elastica, curata “in modo speciale data la grande importanza igienica e terapeutica che riveste questo speciale tipo di maglia”. Dopo i Rivetti si svelava tutto un olimpo di semidei industriali impegnati a forgiare l’imperitura Italia fascista. Una “guida” di questo tipo al locale pantheon degli imprenditori e delle imprese era mai stata fatta? Nel 1925 era stata pubblicato il volume “I ricostruttori d’Italia” curato da Mario Vincenzo Gastaldi per l’Illustrazione Italiana. L’opera, ambiziosa e cospicua, era dedicata al 25° anno di regno di Vittorio Emanuele III e non aveva il tono littorio del trittico del Peroli. Anche in quella pubblicazione c’era molta della nostra industria, a volte con le stesse immagini poi utilizzate nel volume del 1933, ma la differenza stava nello stile e nella finalità. Si trattava delle stesse realtà, ma nel 1925 erano ancora i nobili della monarchia, nel 1933 erano già i campioni del fascismo. Il primo un paesaggio alla Segantini, il secondo una geometria di Depero.
Ettore Barberis, con la sua “ingenita virtù di competente e di tecnico” della filatura. Il suo stabilimento di Candelo, costruito nel 1929, poteva vantare una organizzazione “impeccabile, perfetta”, dove giravano a pieno regime “800 fusi di sistema francese e 1800 fusi di sistema inglese”. Alla vista dei saloni di quella azienda, “si accende di nuova fiamma la fiducia nell’avvenire prospero della Nazione, rinsanguata generosamente da questi potenti nuclei di attività”. E poi il fu Giuseppe Zanon, iniziatore della carbonizzatura di lane tra le vie Trieste e Bengasi, e poi i due figli, Gaetano e Gino Lucio che presero il suo posto dal 1924. Il primo occupandosi anche della Manifattura di Lessona.
Stendissaggio delle matasse della Manifattura di Lessona.
La “lettura” dell’industria biellese (ma in generale è un tratto comune a tutto lo scritto) passava sempre attraverso la lente delle personalità alla guida delle imprese. D’altro canto, il sottotitolo “Viri ac res” è più che significativo. “Uomini e cose”. Gli uomini demiurghi delle cose, creatori del proprio destino perché “Nunc animis opus” (dall’Eneide), cioè quello era il tempo della coraggiosa volontà all’opera. Il Duce era alla guida di tanti piccoli duci, il grande capo aveva tanti generali al comando delle truppe. Il Biellese non sfuggiva alla metafora. A questo punto poteva iniziare la serie dei cuoifici e delle fabbriche di cinghie. La ditta Varale (il titolare era il cav. Pietro Sozzi), Magliola e Chiorino. Così la città era (quasi) completa.
Un’immagine poco nota dello stabilimento di conceria di Andorno Micca del Cuoificio Antonio Magliola di Biella.
Attendevano le valli, dove vivevano “uomini rudi e adusati al più duro lavoro, tempre audaci e cortesi ci accoglieranno nei loro studi ampi e luminosi, nitidamente arredati, dove giunge la stridente canzone delle macchine e dove pulsa, ardentissima e vibrante, un’attività che sembra non debba mai aver sosta”. E quindi si saliva in Valle Strona, partendo da Cossato con i Gallo, i Cartotti e i Valle, poi la già citata Manifattura di Lessona. Poi un salto fino a Vegliomosso, dove era attivo il Lanificio Modesto Bertotto, la cui produzione “è diffusa in tutta Italia, non solo, ma ha raggiunto anche i mercati di Costantinopoli, della Siria, dell’Egitto, e le più lontane colonie inglesi”. Ma davvero gli imprenditori biellesi si riconoscevano in quei ritratti? I due Simone, Ulderico e Edoardo, avevano “serenità limpida di artieri che conoscono la battaglia e non la temono, come tutti gli onesti, come tutti i tenaci; infaticabili lavoratori, non usi a contare le ore di lavoro, il loro esempio trascina il manipolo compatto delle maestranze e degli impiegati, soggiogati dallo spirito e dell’ardore delle loro fortissime tempre”. Ancora un’immagine marziale. L’Italia si preparava a una seconda grande guerra, non paga della prima. I Botto di Valle Mosso: “su basi incrollabili la Ditta si inquadra tra le forze bene organizzate della produzione nazionale e va segnalata all’ammirazione di quanti vedono, nel rifiorire dell’industria laniera, un fattore assai importante dello sviluppo economico nazionale”. Ancora un lessico un po’ tentennante e molto disinvolto con le ripetizioni… E che dire di Gregorio Reda, “superbo di iniziativa e di forza”? Secondo l’autore “la sua energia fredda e silenziosa si impone a tutti; la sua bontà, invano mascherata da una certa rudezza di modi [ancora???], fa fiorire intorno a lui la riconoscenza e l’amore di tutta la valle. La solida tempra di lottatore sfida anche il tempo: a settant’anni dirige ancora il suo organismo industriale con freschezza di energie e con ardore giovanile, a ottanta è sempre sulla breccia”. Idem per Alessandro Zegna di Masserano, che guidava l’omonimo lanificio “instancabile, preciso, energico, dinamico. La sua opera non conosce e non teme ostacoli; dinnanzi a lui la strada è piena di sole come quella che s’arrampica lungo i fianchi della valle fino alle montagne lontane, tagliate tutte candide, sull’azzurro cupo del cielo”. E anche il Maglificio Cesare Cappio, con i suoi 120 dipendenti e le sue esportazioni verso le colonie, non era da meno. Non restava che salire a Trivero per esplorare il mondo Zegna. Interessante l’analisi della “strategia” dei fratelli Zegna (allora ancora uniti in un’unica azienda). Secondo l’autore, gli imprenditori triveresi, ma in primis Ermenegildo, avevano studiato la situazione internazionale ed erano giunti “a stabilire che i principali elementi fondamentali della superiorità della lavorazione inglese erano: la quantità di lana greggia impiegata, l’uso nella lavorazione di acque purissime, il clima umido, particolarmente adatto a mantenere le fibre della lana in uno stato assai favorevole alla lavorazione ed infine la specializzazione delle maestranze. Per quanto riguarda il primo lato del problema gli Zegna, per l’acquisto delle lane sucide, si rivolsero direttamente all’origine scegliendo a propri fornitori le migliori fattorie australiane. Era poi necessario che lo stabilimento potesse usufruire di acqua purissima, sorgiva, non ancora inquinata o comunque adoperata da altre industrie: le sorgenti furono trovate alle falde del Monte Rubello ed ivi venne deciso di innalzare lo stabilimento superando difficoltà non lievi e rappresentate anche dalla distanza dei centri abitati e dalla mancanza, allora, di regolari servizi di comunicazione. Quanto al clima venne provveduto a dotare lo stabilimento di un grandioso e perfetto impianto di umidificazione che permettesse di mantenere in tutte le parti quel grado di umidità che viene considerato specialmente adatto alla lavorazione della lana”. Più attenzione fu posta sulla forza lavoro. “La speciale posizione permise infine, ai Fratelli Zegna di attirare intorno allo stabilimento la massa di operai che in quella località erano già per tradizione intelligenti e pratici lavoratori di lana e vennero pazientemente istruiti e selezionati per la nuova particolare lavorazione, agevolati anche dalla strettissima vicinanza allo stabilimento, che rese possibile il controllo, la guida, e infondere loro quel senso di attaccamento alla Azienda che consentì di poter contare su di una maestranza costante ed affezionata”. La questione operaia era quanto mai prioritaria nell’ottica della creazione del consenso e nella visione fascista dell’avvenire dell’Italia. Il volume “Come li ho visti” è solo un piccolo ingranaggio della macchina propagandistica che doveva esaltare gli imprenditori non solo per la loro capacità produttiva, ma anche per la loro efficacia nell’agire nel sociale, cioè dove lo Stato non aveva possibilità di arrivare, malgrado programmi e promesse. Gli Zegna erano un esempio più che buono, visto che “la ditta non manca di appoggiare e favorire le sue maestranze che godono di tutte le opere di carattere sociale e usufruiranno di una grandiosa sede di Dopolavoro ormai ultimato e che è ampiamente organizzato, con larghezza d’intendimenti e di mezzi e dotato di biblioteca, teatro, campi di tennis, ristorante estivo all’aperto, gioco delle bocce” (il Centro Zegna fu inaugurato il 15 ottobre 1933, quindi da questo è possibile datare il volume). Anche l’esportazione era un elemento di grande rilievo. Le ditte biellesi esportavano parecchio. Il Lanificio Giletti praticamente in tutto il mondo e anche il filato “Lana Rubello” della Manifattura Lesna era conosciuto un po’ dappertutto, per non parlare di Egidio Ferla, che arrivava in Cina e in India. A Coggiola poi, un altro piccolo impero, quello dei Fila. Stabilimenti anche a Biella, Cossato, Fegino (Genova). Morto Severo nel 1930 (“sangue piemontese, anima profondamente latina, carattere temprato ad una vita di lavoro e di studio, occhio profondo di solido uomo moderno, pacata concisione di parole, brevità misurata di gesto. La sua vita è dinamica, ardente, ricca di insegnamenti, di soddisfazioni, di vittorie”), era toccato a Ettore Fila assumere la guida dell’azienda, un’opera “diritta ed inesorabile, sulla grande via tracciata dallo scomparso” e “pervaso dalla stessa grande ed ardente passione di combattere e di vincere la grande battaglia dell’affermazione italiana nel campo laniero internazionale”.
Lo stabilimento del Maglificio Biellese (Fila) in viale Cesare Battisti. L’immagine aerea fu realizzata nel 1932 dalla NAI Navigazione Aerea Italiana.
Ancora guerra. Stesso tono per il Lanificio Bozzalla & Lesna, per quello dei Bruno Ventre e di Teodoro Bardella, fino alle propaggini orientali del Biellese, dove lavoravano i Fratelli Bozzalla a Crevacuore. E da lì oltre il Sesia, dove l’orbita biellese attraeva altri satelliti: la Filatura di Grignasco, gli Zignone di Borgosesia e i Grober di Varallo. Nessun cenno ai Loro Piana di Quarona, attivi da una dozzina d’anni appena, e neanche, fatto questo invece abbastanza stupefacente, alla mastodontica Manifattura di Lane in Borgosesia (alla quale, forse, l’iniziativa editoriale non era piaciuta). In effetti la rete del Peroli era a maglie piuttosto larghe. Infine, dal Sesia al Cervo, ma solo per trattare dei cappellifici Barbisio e Cervo (con dovizia di particolari). E la Filatura di Tollegno, e l’Agostinetti & Ferrua? È del tutto plausibile che la palese avversione degli Schneider per il Fascismo avesse bloccato sul nascere le velleità di “reclutamento” dell’autore. La narrativa di regime non avrebbe incluso gli imprenditori alsaziani, come non aveva coinvolto i Magni di Borgosesia. Il comm. Daniele Schneider (“notissima personalità del mondo laniero internazionale, poliedrica e gigantesca figura di condottiero, aristocratico Principe del lavoro e dell’industria”) fu comunque chiamato in causa in qualità di presidente dell’Istituto Commerciale Laniero, “un’organizzazione assolutamente necessaria alla vita ed allo sviluppo delle diverse industrie laniere”. Molto di quel Biellese non c’è più. E si ha sempre più labile memoria di ciò che fu. Altro ancora si dovrebbe cavar fuori da quelle pagine non certo imperdibili, ma comunque segno di un tempo lontano, eppure nostro. Potete leggerle nel portale del Centro Rete Biellese Archivi Tessili e Moda. Cercate ciminiere nel sito e sfogliate quel mondo.