L’articolo di Danilo Craveia su “Eco di Biella”, 5 novembre 2009
Quella delle celebrazioni per il centenario di fondazione dei Bersaglieri era, per l’industre ma provinciale Biella del 1936, un’occasione di grande visibilità. Per qualche giorno l’operosa cittadina dei camini fumanti avrebbe goduto dell’attenzione dell’Italia tutta, in ossequio al La Marmora e ai suoi “fanti piumati” corridori. Una vetrina da non perdere, pensarono i gerenti del Fascio locale. Soprattutto il laniero on. Leone Garbaccio, che si fece promotore di un’iniziativa senza precedenti che trovò nell’Associazione dell’Industria Laniera Italiana (nata a Biella sessant’anni prima e ivi residente) e in tutti gli industriali del circondario et ultra una piena ed entusiastica adesione. Nacque così la “Prima Mostra Laniera Biellese”, grande fiera della vanità, della qualità e della quantità, vitale embrione della nostrana coscienza d’eccellenza, orgogliosa affermazione di tradizione e di bellicosi proponimenti in tempi di “inique sanzioni” e di inconfessato desiderio di ridurre Manchester a “Biella d’Inghilterra”.
I lanifici delle valli, tra giugno e luglio, divennero padroni della piazza (letteralmente, quella del mercato: la mostra fu allestita lì, con un nuovo edificio fatto ad hoc tra il Sociale e le Scuole Professionali). Cento cinquanta “posteggi” (leggi stand espositivi), centomila visitatori (cifra littoria, ma credibile), insomma un successo che attende ancora una replica. In quel contesto di euforia, di famedi di pionieri del telaio e di slogan alla “ordire e ardire”, Ermenegildo Zegna, da par suo, decise di fare un passo avanti volgendo lo sguardo indietro. Fece costruire il “Lanificio a Trivero nel XVII secolo“, rievocazione di “ordegni” e di figuranti in costume (i più reclutati tra i suoi dipendenti) di un opificio proto-industriale. Sulla scia di coloro che, facendo l’Italia e gli italiani (un nome? Quintino Sella), si erano adoperati anche per consolidare l’identità biellese affinché non si perdesse nella miscellanea demo-etno-antropologica del nuovo Regno, anche lo Zegna volle dire: “eravamo questa roba qui”, la nostra fortuna imprenditoriale è nata nelle stalle d’alpeggio, dai folloni ad acqua e dalle nostre mani. Quale mezzo migliore quindi per rammentare le radici a chi le aveva dimenticate o mai apprese? Un presepe vivente della mistica laniera, una sequenza di quadretti più efficaci che edificanti (l’avvenenza delle operaie fu più volte rimarcata dalla stampa locale e ribattuta dalla Reuter), un po’ “planches” da enciclopedia e molto “biblia pauperum“.
In quell’era di grandi masse e di pochi media, ma di globalizzazione già brutta, sporca e cattiva, “nonno Gildo”, allora quarantenne alla conquista del mondo, mise in scena lo spettacolo lindo e homofaberiano del lavoro, tra didattica alla Roccavilla, ricercata filologia meccano-tessile e ingenuità folkloristiche. Ma il “vetusto” lanificio non era solo un’operetta: la stoffa la produceva davvero. Zegna ne ebbe plauso unanime, pure dalle Loro Altezze Reali il Principe Umberto e la Duchessa di Pistoia, e dal conte Volpi di Misurata, allora a capo di Confindustria: il suo “effetto speciale” fu la vera attrazione non commerciale della manifestazione. L’industrializzazione aveva sconvolto gli equilibri tra l’umanità e la fatica, tra gli uomini e la terra. Ermenegildo Zegna, che pure aveva già una grande azienda, ne era consapevole. Operò in concreto nell’ambiente e per l’ambiente, si dedicò ai triveresi nell’assistenza e nella socialità, ma la sua fabbrica, come tutte le altre, restava per tempi, metodi e modelli, pur sempre una fabbrica. Rumore, ritmi sempre più serrati, macchine pericolose, aria malsana, ecc… La realizzazione del lanificio “antico” era, forse, anche un tributo alla memoria e alla speranza di un lavoro sublimato in arte e, soprattutto, a misura d’uomo.
Eco di Biella, 5 novembre 2009 (1)
Eco di Biella, 5 novembre 2009 (2)
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