Proviamo a chiedere a una giovane lavoratrice, oggi, se le parrebbe giusto, a parità di lavoro con gli uomini, percepire un salario inferiore. Ci guarderebbe stranita, come se arrivassimo da un altro pianeta. In effetti, come tanti altri, quello di percepire uguale salario a uguale lavoro è un diritto acquisito e talmente fondato sul buon senso, prima ancora che su qualsiasi principio paritario, da indurci a pensare che esista da sempre e che sia per l’eternità inviolabile.
In realtà, questo diritto proviene sì da lontano, ormai, ma non da epoche remotissime: è del 1963 la prima sentenza che stabilisce che le donne e gli uomini, a parità di prestazione professionale, hanno diritto a un uguale salario. Prima, il salario femminile era di circa il 20% inferiore a quello maschile.
Questa sentenza fu emessa per la prima volta in Italia dal Pretore di Biella Giuliano Grizi, il 13 gennaio 1963, in seguito al ricorso di una tessitrice patrocinato dalla Camera del lavoro.
Per capire come e per quale motivo si giunse, proprio a Biella, ad una conquista tanto importante che da allora fu estesa poi a tutti i contratti e a tutte le categorie, occorre fare qualche passo indietro.
Per andare, precisamente, alla primavera del 1944, quando, in piena guerra, nel Biellese i sindacati clandestini e una delegazione di alcuni industriali firmarono in località Quadretto l’accordo passato alla storia come “Il contratto della montagna”.
In tale accordo oltre al diritto di organizzazione sindacale nella fabbrica, e condizioni salariali e di orario di miglior favore rispetto ai contratti nazionali allora vigenti, si riconoscevano per la prima volta alcuni principi fondamentali per le donne lavoratrici: la tutela della maternità con il relativo congedo di tre mesi (che all’atto della ratifica diventeranno sei), il principio della parità salariale, le 40 ore settimanali.
L’accordo, rinnovato nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, rimase tuttavia, per le sue parti più innovative, lettera morta per lungo tempo. O meglio, queste condizioni di miglior favore delle donne biellesi non riuscirono a sopravvivere nei contratti nazionali e neppure negli accordi integrativi locali del primo ventennio del dopoguerra.
Si deve attendere, appunto, l’inizio degli anni sessanta, la forte ripresa economica e la conseguente ripresa del movimento rivendicativo nelle fabbriche tessili (l’epica “Estate calda” del 1961) perché il tema della pari dignità del lavoro femminile rispetto a quello maschile torni al centro dell’attenzione e dell’impegno sindacale.
Dal 1952 Teresa Noce e Giuseppe Di Vittorio (segretario generale della Cgil) avevano depositato in Parlamento una proposta di legge sulla parità salariale. Da anni la Commissione femminile della Camera del lavoro di Biella premeva in questa direzione. Finalmente nel 1961 la Fiot di Biella (il sindacato tessile della Cgil), insieme alla Camera del lavoro, patrocinò la vertenza-pilota della tessitrice Mary Ceria contro la ditta Tallia Galoppo Dionisio di Vigliano. La causa fu affidata all’avvocato Sebastiano Barone. Oltre un migliaio di tessitrici seguirono l’esempio della Ceria, alcune anche a costo di incorrere nelle rappresaglie padronali.
Della sentenza del gennaio 1963 si è già detto. La sentenza fu confermata in appello. Essa dichiarava perentoriamente nulle tutte le clausole legislative e contrattuali che stabilivano disparità di trattamento tra uomini e donne a parità di lavoro. Questa sentenza, oltre ad essere un precedente giurisprudenziale, ebbe immediata ricaduta sul contratto nazionale dei tessili del 1964, che estese la parità di salario a tutta la categoria su tutto il territorio nazionale. Più avanti, la conquista riguardò tutte le categorie e i comparti produttivi.
Simonetta Vella