Intervista raccolta e trascritta da Maurizio Regis
Signor Pozzi, lei dove ha lavorato?
Ho lavorato al lanificio Fratelli Cerruti di Biella dal 1955 al 2009.
Con quali mansioni?
Sono entrato con un periodo di apprendistato iniziale, come si usava allora, in tessitura, in cui si imparava a fare le cose manualmente: incorsatura dei fili, annodare, imparare a tessere sul telaio vero e proprio; sono uscito come dirigente.
Fin dalla mia assunzione ero stato destinato all’ufficio disposizioni, che era l’ufficio preposto alla comunicazione degli ordini di lavoro ai vari reparti. Avrei dovuto fare un apprendistato più lungo, ma dopo solo tre mesi che ero in azienda morì il capo dell’ufficio disposizioni e quindi fui destinato al lavoro d’ufficio con un certo anticipo. A quel tempo non c’erano strumenti negli uffici, né fotocopiatrici né tantomeno computer. Non c’era ancora nemmeno la Divisumma Olivetti; si procedeva con una macchina calcolatrice manuale della Mercedes e poi una calcolatrice elettrica della Monroe. Tutti gli ordini che venivano emessi erano scritti a mano.
Sono rimasto in questa parte burocratica per qualche tempo, finché qualche anno più tardi arrivarono in azienda dei consulenti dell’organizzazione. Nino Cerruti, allora era un giovane che aveva ben chiaro che il mondo stava cambiando e che aveva delle ambizioni e pensava all’Europa e al mondo come mercato complessivo, valutò che all’azienda avrebbe fatto bene un “bagno” di cultura organizzativa.
Quello era il tempo in cui non esisteva ancora la confezione nel processo produttivo. Il tessuto si comprava in negozio e poi si andava dal sarto. I sarti più organizzati erano in grado loro stessi di proporre il tessuto al cliente. L’esportazione era una parte minima della produzione; coinvolgeva circa il 20-30 % della produzione, mentre il resto era dedicato al mercato nazionale.
I consulenti erano dei laureati che lavoravano per Mediobanca e avevano costituito un’associazione mirata, Progredi, per analizzare il processo aziendale nel suo complesso. Grazie a questi report ho iniziato a conoscere nuove teorie, ho scoperto Taylor, il primo ad aver organizzato il lavoro in modo scientifico, e l’azienda ha iniziato ad applicare i suggerimenti proposti dai consulenti, inserendo dei cambiamenti piuttosto importanti, che andavano di pari passo con l’evoluzione dell’ambiente, dei mercati e anche dei macchinari. A quel tempo, infatti, il tessitore “guardava” ancora 1 o 2 telai, che non battevano più di 100 colpi al minuto, non c’era ancora il turno di notte e l’azienda impiegava 1200 persone che originavano circa 1.000.000 di metri all’anno di prodotto. Si è arrivati ad avere un’azienda con 400 persone e 4.000.000 di metri di prodotto l’anno con telai che attualmente battono 800 colpi al minuto e ogni operaio ne gestisce 12. Lì ho conosciuto l’ingegner Galgano, che è colui che ha introdotto in Italia il concetto del total quality e che mi ha insegnato una nuova filosofia produttiva.
Diventai, poi, capo ufficio una volta che il mio capo fu promosso e la denominazione da ufficio disposizioni divenne programmazione, proprio a testimoniare come dalla semplice comunicazione degli ordini di lavoro si sia passati alla vera e propria programmazione del lavoro, che vuol dire prevedere e organizzare programmi adeguati per tutta l’azienda, cosa molto complessa in un lanificio a ciclo completo, che a mio avviso è una delle strutture più complicate che esistano, perché concentra tutti gli aspetti che riguardano produzione, qualità, realizzazione. Tutto questo lavoro è da fare intorno ad una fibra che è volubile, da molti definita viva, che cambia la sua natura a seconda dell’alimentazione della pecora, dal clima, dalla temperatura, tutti fattori che impongono modifiche ai processi di lavorazione e nuove tarature dei macchinari. In questo caso la preparazione personale è fondamentale per riuscire a trasferire le caratteristiche volute ad un prodotto estremamente variabile.
Nino Cerruti poi andò a Parigi ad aprire una boutique e a presentare un nuovo tipo di prodotti. Per aumentare l’allure del marchio iniziò anche a vestire gli attori nei film hollywoodiani. Al gruppo, però, mancava il reparto confezione, e allora Cerruti andò a Milano per completare il ciclo produttivo aprendo la confezione. Uno dei primi stilisti a lavorarvi fu Giorgio Armani.
Tutto ciò andò avanti fino alla fine degli anni Settanta-Ottanta, quando il direttore industriale del lanificio decise di andare a lavorare in Messico e l’azienda affidò a me tale ruolo. Passai dalla semplice impostazione dei programmi anche alla loro realizzazione. Dovevo aggiungere alla cultura della programmazione anche quella tecnologica: mi dovevo interessare molto da vicino delle macchine e della loro gestione. Intanto esplose il discorso del total quality, proveniente dal Giappone, e del just in time. I magazzini si spostarono da luoghi fisici interni all’azienda ai camion che trasportano la merce dal luogo di produzione al luogo di utilizzo. Quindi serviva una perfetta organizzazione dei trasporti, degli approvvigionamenti e del lavoro. Diventò, quindi, mio compito la gestione di questo movimento di merci legato all’organizzazione della produzione.
Tutto questo procedimento si riflesse sull’uomo, perché l’operaio diventa protagonista ed essendo il miglior conoscitore del proprio lavoro è colui che può suggerire delle modifiche o dei miglioramenti al proprio lavoro. Diventa fondamentale la formazione della persona e lo studio delle macchine.
In questa rivoluzione tutto parte dall’alto. Mentre solitamente le rivoluzioni, quelle storiche, partono dal basso, questa parte dall’alto e coinvolge man mano tutti i livelli di produzione e richiede una rilettura dei rapporti di funzione. È difficile convincere il titolare, ma è ancora più difficile più il livello è basso: chiedere ad un caporeparto di ascoltare i propri operai è straniante, ma è altrettanto inusuale chiedere ad un operaio come secondo lui vada fatto il lavoro.
Invece il discorso del total quality in cosa consiste?
Total quality significa nessun difetto. Non vuol dire fare al meglio possibile, non vuol dire con meno difetti possibile: vuol dire nessun difetto. Prova a passare da un concetto di accettare qualche difetto ad uno che non deve averne. C’è una bella differenza.
Tant’è che al giorno d’oggi il disegnatore tessile, il progettista, che solitamente va alla ricerca dell’idea creativa, non conosce le macchine e non si interessa della realizzazione del suo progetto. In questo sistema, invece, deve fare un progetto realizzabile e se non sa come si fa deve imparare. Nasce una forte interazione tra progettazione e realizzazione per cercare di ridurre il tempo di produzione, non avere difetti, costi contenuti e competenza del personale.
Io come responsabile di produzione dovevo cercare le modalità migliori per ottenere determinati risultati.
Negli stessi anni nasce il cool wool, tessuti di basso peso e con aspetto e mano nuovi, per andare incontro a richieste di mercati diversi per luoghi diversi con esigenze diverse. È chiaro che tra i –30° della Svezia e i 40° del Sud-Est asiatico c’è una bella differenza, quindi servono tessuti diversi. Non abbiamo più bisogno di coprirci di chili di tessuto come in passato: passiamo da un ambiente riscaldato all’altro, quindi anche in inverno non serve più avere vestiti molto pesanti. Un abito invernale di quei tempi pesava fino a 700 g/m lineare [1m x 1,5m, la distanza tra le cimosse, ndr] e con i nuovi tessuti il peso si riduce a 300 g/m. Un tessuto estivo passa dai 400 g/m ai 200 g/m e persino i paletot arrivano ad essere prodotti con tessuti da 300 g/m. Parallelamente nascono i tessuti tecnici per certe esigenze e si smette di coprirsi e si inizia a vestirsi. Ecco che il famoso motto di Nino Cerruti acquista tutto il suo valore: “Mon but c’est d’ameliorer le style de vie de l’homme”.
Per fare questi nuovi tessuti occorrono nuove materie prime, nuovi filati molto più sottili. Si passa da filati con un titolo di 30-40 km/kg a 120-180 km/kg. Come dire che prima si andava da Biella-Vercelli e ora da Biella-Cuneo. Questo implica problemi di resistenza del filo, anche perché i telai a navetta che citavo prima battevano 100 colpi al minuto, mentre quelli nuovi a proiettile ne battevano 800. Il che comporta una sollecitazione dinamica incredibile per il filo. Allora si devono sostituire le macchine ed è stato mio compito dichiarare inadatte le macchine che fino a quel momento andavano bene. Mi presero per matto, ma sei mesi dopo vennero a darmi ragione, non perché fossi un profeta, ma perché avevo capito che un filo così sottile non poteva reggere un’accelerazione di quel tipo e siccome il filo non lo si voleva né poteva cambiare, bisognava cambiare le macchine.
Si verificò, quindi, una rivoluzione nel settore meccanotessile, perché si producevano tessuti nuovi e quindi non andavano più bene i macchinari di finissaggio che si usavano per tessuti molto più pesanti. Per fortuna nel Biellese c’erano dei produttori di macchine svegli che ascoltavano le nostre richieste, modificavano le macchine e ce le davano in prova. Per loro dare le macchine in prova era un’occasione imperdibile, perché potevano sottoporre i propri macchinari allo sforzo reale della produzione. Anche la tempistica si contrasse molto perché la confezione non aspettava più i 4-6 mesi di consegna che concedeva il grossista.
Quindi non rimase più niente di simile a prima se non la filosofia.
Lei, quindi, su quale macchina ha lavorato?
Io solo sul telaio. Non ho avuto tempo di imparare altro direttamente, anche se poi, come responsabile di produzione, ho dovuto imparare un po’ tutto il funzionamento delle macchine, anche per deciderne l’acquisto e la manutenzione, pur non dovendoci mai lavorare. Non farebbe, però, male imparare quali bottoni schiacciare, soprattutto per i progettisti e altre figure chiave, che sarebbe meglio capissero che certe loro prescrizioni comportano modifiche alle macchine che spesso vanno dall’inutile al costoso.
Ogni periodo ha i suoi paradigmi qualitativi che si trasferiscono nel personale. Un tempo quando la tessitrice guardava il telaio, ne guardava uno che era privo di qualsiasi automatismo. Non c’erano meccanismi che facessero fermare la macchina in caso di rottura del filo, né altro. Ad esempio il tessitore di oggi si chiama ancora così, ma è una figura totalmente diversa.
Più interessanti sono i ruoli in cui l’uomo ha ancora la sua importanza immutata. L’esempio più classico è la rammendatrice, che non ha a che fare con delle macchine. Esprime valutazioni dal primo all’ultimo minuto di lavoro decidendo se il tessuto va bene o non va bene ed è lei a discriminare se si tratta di un difetto o di una caratteristica. Sono decisioni arbitrarie, ma fondamentali. Per fare ciò bisogna sapere cosa si aspetta il cliente e in base a questo si determinano i criteri dei controlli. Se ci sono difetti il cliente si arrabbia e solleva dubbi sul livello dei controlli effettuati sul prodotto. Quanti sono i dirigenti che prendono decisioni continue come la passapezze?
Quindi bisogna trovare le persone con le caratteristiche giuste. Non tutti sono adatti a tutti i lavori. Bisogna istruirli e farli comunicare tra loro. Ricordo che uno dei più grandi risultati ottenuti fu organizzare un pullman di passapezze e rammendatrici e portarle a parlare con gli operatori della confezione perché costoro spiegassero i motivi per cui i tessuti che mandavano dalla fabbrica non andavano bene per il lavoro di confezione. Fu un successo clamoroso. Finalmente avevano capito che cosa facevano con i loro tessuti e cosa veniva loro richiesto dai confezionisti.
Secondo lei qual è il rapporto uomo-macchina?
Il rapporto uomo macchina è sempre continuo, perché la tecnica cresce per conto suo; colui che costruisce il telaio rincorre i suoi obiettivi indipendentemente dal lavoro dell’operaio.
Come dicevo prima, il tessitore non è più il tessitore di una volta. Oggi deve occuparsi di 12 macchine, nel settore cotoniero sono anche 40-50 macchine. Il tessitore di una volta, che guardava 2 telai da 100 colpi al minuto aveva una produttività teorica di 200 colpi al minuto. Ora si occupa di 12 telai da 800 colpi al minuto: fa 9600 colpi al minuto. Capisci bene che il tessitore è un’altra figura, che non ha più bisogno di fare certe cose perché se si rompe il filo il telaio si ferma, se si rompe la trama pure, se c’è un problema di motore c’è un pannello che indica dov’è il problema. L’operaio pattuglia le 12 macchine in fila, se si rompe il filo deve riannodarlo e deve sostituire la rocca di filo quando finisce. È più una gestione e questo implica una formazione mirata differente da quella del vecchio tessitore che doveva fare molto più lavoro fisico, dovendo fermare lui la macchina, altrimenti si creava un difetto grave che, sempre che si riuscisse a riparare, costava. Oggi si chiede ancora al tessitore di capire se il telaio va bene o se sta succedendo qualcosa, ma i tempi sono così rapidi che bisogna fare le cose bene la prima volta, altrimenti si va fuori tempo massimo.
Bisogna quindi avere persone che perseguono l’obiettivo fin da subito. Prima c’era una manualità che oggi non è più richiesta. Come anche l’identificazione con la propria macchina. Quante volte mi è capitato di sentire l’espressione “la mia macchina”. Ricordo una signora rientrata dopo una maternità di due anni, che messa a lavorare su un filatoio mi chiese “E la mia macchina?”. La sua macchina era quella là, non questa su cui doveva lavorare. Si crea un rapporto umano incredibile e comprensibile.
All’interno di questi rapporti c’era chi faceva strada. I capi reparto erano bravi operai che avevano fatto strada. Era difficile che fossero persone giunte da fuori e posizionate a capo di un reparto in cui si doveva lavorare sulle macchine grazie al titolo di studio. Tutti iniziavano a fare il bocia e da lì si continuava. Quindi si capisce bene il rapporto che si crea tra l’operaio e la sua macchina. È un rapporto molto amorevole, tant’è che un bravo operaio con la sua macchina forma un tutt’uno ed è per quello che si riesce ad impostare il discorso del total quality: perché ce l’hai già lì la qualità. È un discorso ben diverso da quello che si faceva in passato di “ti fa ‘l to travaj” e “va ne-n musé ij gat a ramp-jé”; c’era un vero e proprio classismo.
E il suo rapporto con le macchine?
Io non ho avuto tempo di individuare la mia macchina. Sono diventate tutte mie macchine: quando sei il responsabile aziendale della produzione sei il responsabile di tutto. L’unica cosa che non si fa in un lanificio è la lavorazione della lana vera e propria, che si fa nelle pettinature; è una lavorazione che richiede dimensioni tali da non essere realizzabile in un lanificio, per grande che sia. Le pettinature ti danno una lana lavata, pettinata e pronta per iniziare la produzione del filo. Quindi tutta la fase delle macchine di tintoria, filatura, tessitura e finissaggio ricade sotto la supervisione del responsabile. Più è differente la produzione, più ci sono macchinari diversi. Quindi il rapporto con le macchine consiste prima di tutto nel conoscere in ogni reparto qual è la filosofia, che viene fuori dagli obiettivi che dà l’azienda, e poi come impatta sugli aspetti generali.
Ad esempio in tintoria hanno inventato gli spettrofotometri, che sono strumenti a cui si sottopone la lettura del colore e propongono una ricetta per la sua riproduzione; poi si fanno delle prove per vedere come fare ad industrializzare questa produzione. In ogni reparto c’è un percorso che meglio si presta alla realizzazione di quel determinato prodotto. Il reparto forse più importante del lanificio di oggi è il finissaggio, che è come una cucina: gli ingredienti possono essere tutti uguali, ma da una parte mangi bene e dall’altra mangi male. Il finissaggio è un insieme di macchine e uomini in cui arriva un tessuto che deve uscire con un certo aspetto, una certa mano e una sicura confezionabilità, fatto per nulla marginale. Il più bel tessuto del mondo se ha una scarsa confezionabilità non va bene, perché lo scopo è farne un vestito, non un prodotto da ammirare. Come dico dall’inizio è la funzione ultima che determina la qualità del prodotto.
Quanto è cambiato il finissaggio da quando è entrato in azienda ad oggi?
È cambiato in modo determinante. Anche se effettivamente alcuni aspetti sono rimasti uguali al passato. Un esempio ne è il folloniere. Il follone è un macchinario che serve a provocare l’infeltrimento e dei rientri anche importanti del tessuto, nell’ordine del 40-50%, o a dare semplicemente una mano più gradevole. L’uomo che lavora su questa macchina è ancora chiamato a decidere quando il tessuto va bene, quindi anche se oggi a bordo macchina c’è un computer che determina qual è il tempo richiesto dal ciclo di lavorazione voluta, ad un certo punto il folloniere arresta la macchina, tira fuori il tessuto che sta girando, lo misura, lo tocca, lo guarda e decide se è già pronto o meno. Ci sono lavori che sono rimasti tale e quali al passato, come abbiamo già detto delle rammendatrici e delle passapezze, mentre si sono diffuse le macchine automatizzate: in finissaggio sono state introdotte le macchine in continuo in cui il tessuto entra grezzo ed esce lavorato. Prima le macchine erano tutte discontinue e prevedevano carico, lavoro e scarico; oggi esistono macchine lunghe anche 50 m, dove il tessuto entra di qui ed esce di là e chi guarda quella macchina deve solo controllare che non ci siano imprevisti, ma il grosso del lavoro l’ha fatto chi ha tarato la macchina, chi l’ha costruita e chi ha raccolto le informazioni di chi deve utilizzare quel prodotto. C’è stato, ovviamente, anche un grandissimo aumento delle prestazioni.
Ci sono anche macchine pericolose in cui se si sbaglia una valutazione si butta via tutto. Ad esempio, in un decatizzo in autoclave se si fa tutto bene si stabilizza il tessuto e si ottiene ciò di cui ha bisogno la confezione, ma se si sbagliano i tempi si butta via il tessuto perché si rovina. A quel punto il rapporto con la macchina diventa un rapporto di tipo prestazionale: sai di che cosa hai bisogno e vai cercando qualcosa di diverso. Diventa un rapporto tra te e il tecnico che la usa.
Uno dei trattamenti di finissaggio più in uso in passato era il london shrunk, cioè il restringimento del tessuto per condizionamento naturale. L’obiettivo è sempre quello di stabilizzare dimensionalmente il tessuto e di dare una mano adeguata al tipo di tessuto da fare. Il tessuto veniva imbibito di acqua e infilato in un tunnel con una temperatura e un’umidità controllata, e stava lì appeso per varie ore; quando usciva aveva assorbito l’umidità che quell’articolo doveva assorbire. Questo procedimento richiedeva tempi lunghissimi, quindi non andava d’accordo con i tempi di consegna che sono stati più che dimezzati dalle logiche moderne della confezione. Quindi abbiamo chiamato un costruttore di macchine di finissaggio e abbiamo chiesto una macchina che avesse le caratteristiche necessarie. Ovviamente si deve rinunciare a certi aspetti, ma spesso cambiano anche i gusti dei clienti. Il confezionista ha bisogno di un tessuto con determinate prestazioni, quindi anche se qualcuna, non essenziale al suo lavoro e al risultato finale, si perde per strada non è un problema.
La mia preoccupazione come responsabile di produzione è stata per lungo tempo legata a dati numerici, tempi di attraversamento, costi, percorsi, ecc. Quando mi sono accorto che la fabbrica stava “invecchiando”, ovvero non era più capace di rispondere adeguatamente alle sollecitazioni di mercato si è resa necessaria una ristrutturazione completa della fabbrica, fisicamente e meccanicamente. Queste cose si possono fare con determinate conoscenze e con il totale appoggio dall’alto; perché una volta fatta una scelta di quel tipo non si torna indietro.
La macchina si evolve, ma è l’uomo che determina il suo funzionamento. Se l’uomo subisce la macchina, questo diventa un problema e occorre rimediare. Negli anni, con i sindacalisti sono nate le discussioni su quante macchine è giusto assegnare ad un operaio. Si possono fare mille calcoli sulla saturazione, ma bisogna trovare un equilibrio. Anche se politicamente riesco ad ottenere di assegnargli più macchine di quelle che può effettivamente gestire e le lascia ferme, non ho ottenuto alcun risultato effettivo. La logica americana applicata al tessile è sempre stata quella di assegnare più macchine di quelle gestibili, perché costava meno avere macchine ferme che non pagare un addetto in più insaturo. In Europa non è mai stato così: l’equilibrio costo-risultato è sempre stato determinante. Nei paesi emergenti come India e Cina il problema non si pone, tant’è che le macchine sono prive di alcuni automatismi perché costa meno mettere più operai sulla stessa macchina: l’assegnazione non è determinante in termini di costo quanto l’investimento.
Anche da noi bisogna trovare l’equilibrio tra automazione e lavoro tradizionale: in alcuni reparti ha senso perseguire la meccanizzazione, in altri no. Poiché le persone non sono tutti uguali, ognuna con le sue caratteristiche e le proprie capacità, e per il fatto che ogni lavorazione ha la sua serie di connotati, bisogna ovviamente cercare di mettere le persone giuste al posto giusto e quando ci si riesce, si vedono le persone che lavorano volentieri. Quando arrivi a quel punto, normalmente devi cambiare macchina.
Quando c’è una struttura organizzativa complessa è importante trovare la filosofia aziendale, che deve essere molto chiara: non ha alcun senso dichiarare di voler fare il meglio possibile, perché il “meglio” non è un vero e proprio obiettivo. Chi dichiara di volere un prodotto con determinate caratteristiche ha ben chiaro il proprio scopo e la propria filosofia. A quel punto l’organizzazione deve essere orientata nel modo adeguato all’obiettivo e si deve essere capaci di fare le giuste valutazioni in ambito produttivo e segnalare quando si va fuori dalla filosofia aziendale.
Il total quality aborre in maniera totale il pressappochismo e la soluzione di tutto è, secondo me, la cultura e la formazione, quindi l’organizzazione.