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- A Selve Marcone i farsetti di Antonio Stellio e della sua vedova
da Eco di Biella dell’11 novembre 2024
[Danilo Craveia]
La doppia definizione di farsetto (Oxford Languages) aiuta a farsi un’idea dell’indumento. “Antico giubbetto maschile, con o senza maniche, per lo più imbottito d’ovatta; anche come simbolo della gente umile che soleva indossarlo”. Ma anche “specie di maglione indossato dai militari sopra la camicia”. Quindi per operai e/o soldati. Un’interessante descrizione del capo, quasi coeva al documento analizzato in questa pagina, si trova nel “Giornale militare” del 1900. Comunicando l’adozione di un nuovo tipo di farsetto, il notiziario ufficiale del Regio Esercito rammentava che “i filati del farsetto sono costituiti di tre fili accoppiati e la maglia è lavorata con punto a costa. Le sue parti sono: un corpo e due maniche. Il corpo è formato di un sol pezzo di maglia senza cuciture laterali, ammagliato sulle spalle e l’ammagliatura è rinforzata internamente con nastro di cotone. Le maniche sono dell’istessa maglia del corpo ed hanno i polsini allestiti con filati di lana cardata identica a quella delle maniche e costituiti da tre fili semplici ritorti e riuniti fra loro. I polsini sono attaccati alle maniche mediante ammagliatura. Sotto le ascelle è praticata un’apertura circolare orlata all’in giro con lo stesso nastro delle spalle”.
Selve Marcone. “Il nome di questo paesello ce ne dice senz’altro la posizione. Esso sorge infatti in mezzo a boschi […]. Vasti ed annosi castagneti ammantano la parte più fertile del territorio e, mentre ne formano la ricchezza principale, vi spandono un’ombra che, a chi vi è pur una volta sola tuffato a pieni polmoni, «sempre staranno innanzi, e non indarno» se avverrà poi che nei giorni canicolari debba battere il rovente acciottolato della città. Però non è paese di villeggianti, perché poco conosciuto e perché, a dire il vero, un po’ troppo romito e solo confacente a chi, non bastandogli la quiete relativa dei campi, cerca la segregazione temporanea dal consorzio civile per ritemprare nel riposo assoluto lo spirito e il corpo”. Con queste parole, Luigi Pertusi e Carlo Ratti, citando Mastro Adamo del XXX canto dell’Inferno a proposito di frescura, abbozzavano l’ameno villaggio sulla loro Guida pel villeggiante nel Biellese. La prima edizione data al 1886, la seconda al 1892 e una terza al 1900. All’epoca, Selve Marcone doveva essere, com’è tuttora, un gioiellino di quiete agreste, ma era quella anche l’epoca in cui tra gli ombrosi castagni, c’era chi non viveva solo dei frutti del suolo, ma pure dell’arte delle proprie mani. Ce lo racconta un documento scampato chissà come al macero e all’oblio e, grazie a Bruno Cremona, condotto in salvo alla Fabbrica della Ruota. Sulla copertina: “Registro della contabilità di Stellio Antonio fabbricante di farsetti a maglia in Selve Marcone (Biella)”. Le registrazioni iniziano il 15 settembre 1887 e si concludono il 27 novembre 1894. Un periodo breve, ma intenso, durante il quale il titolare dell’azienda passò da questa a miglior vita, lasciando la vedova a mandare avanti la ditta. Il lavoro a maglia era un’attività piuttosto diffusa tra i colli di Callabiana, Camandona, Pettinengo e Zumaglia. Non solo le donne, ma anche gli uomini, soprattutto i pastori, si dedicavano alla maglieria di lana. Alcune fotografie di quei tempi ritraggono un magliaio intento al suo lavoro mentre era al pascolo nei dintorni di Pettinengo.
Non si sa nulla di Antonio Stellio. Quel che è certo, però, è che Carolina Mussi, la moglie, è già indicata come vedova sull’Annuario d’Italia amministrativo-commerciale del 1889. La donna non si risposò. La vedova Stellio rimase tale e raggiunse il marito ai primi di marzo del 1913. La produzione era artigianale, non industriale. I farsetti di Selve Marcone erano tutti fatti a mano. Non è noto in quale stabile del villaggio fosse ubicato il laboratorio, ma si trattava senz’altro di un’unità produttiva di tutto rispetto. Lo si evince dalle registrazioni. Il registro è incompleto, manca delle prime sette pagine e di almeno undici alla fine, ma quanto si è preservato è più che sufficiente per tentare di ricostruire, sebbene parzialmente, un’esperienza particolare della quale non sembrano esserci altre notizie. I farsetti erano prodotti e venduti a dozzine, così come le maniche che erano smerciate separatamente per poter essere attaccate alla bisogna o per poterle sostituire ad altre usurate. I vari lotti acquistati dai clienti sono descritti più o meno tutti allo stesso modo, ossia con l’indicazione del numero delle dozzine dei farsetti e delle maniche, della misura dei farsetti (“stragrandi”, “1a taglia”, ma anche di seconda e terza, “assortiti” ecc.) del peso complessivo dell’ordine evaso, del computo del prezzo totale rispetto a quello per chilogrammo. Le calligrafie, in effetti, sono due. Ordinata e morbida la prima, forse quella del povero Antonio, più approssimativa e spigolosa la seconda. Carolina era meno attenta alla forma e più concentrata sulla sostanza? Chi può dirlo? Comunque, non deve essere stato facile. Si era ritrovata sola dopo un paio d’anni da quando era stato iniziato il registro. Eppure, era andata avanti, e non è chiaro se con lei ci fossero figli o altri parenti, o lavoranti di qualche tipo (anche se, come si vedrà, sembra che sia molto probabile). Il libro è l’unica attestazione nota di quella realtà produttiva e commerciale. Una realtà che non solo è rimasta in esercizio guidata da Carolina, ma è anche cresciuta in quantità e fatturato. L’analisi delle registrazioni lo attesta. Il prezzo di vendita dei farsetti e delle maniche è costante, anno per anno, ma la richiesta non solo rimane solida, ma si incrementa. Significa che il mercato “tirava”, forse anche perché a Selve Marcone il prezzo al chilogrammo non variava. O viceversa. Per il periodo analizzabile, un chilogrammo di farsetto (medesimo prezzo per le maniche) oscilla sempre tra le 5 e le 5,40 lire. Lo stesso dicasi per gli altri prodotti della ditta Stellio. Calze, calzetti e muffole. In effetti, i farsetti e i “corpetti” venduti singolarmente rappresentavano l’85% della produzione, ma Antonio Stellio, prima, e Carolina Mussi, poi, offrivano anche altri manufatti di maglieria. Il capo finito prevedeva anche una fodera (lino o tela di altra natura) che, a volte, veniva fornita dal cliente. In un paio di casi fu fornita dal cliente anche la lana lavata o “da purgare” necessaria, il che comportava la preparazione del filato presso qualche terzista della zona.
La produzione, se non industriale, era senz’altro seriale: un capo finito pronto a mettersi che i compratori non avevano difficoltà a vendere per poi inoltrare a Selve Marcone un’altra commessa. Nel 1887 furono prodotte più di 150 dozzine di pezzi, come a dire oltre 1800 farsetti. Con 300 giorni lavorativi all’anno il calcolo porta a 6 “gilet” al giorno. Più le maniche (110 dozzine), circa 50 corpetti, 35 dozzine di muffole e centocinquanta paia di calze e calzetti. Impossibile per una persona soltanto o anche per due, quindi il laboratorio era condiviso con altri lavoratori o, più probabilmente, Antonio Stellio e Carolina Mussi gestivano una rete di lavoranti a domicilio, grande, forse, come tutto il paesello. Nel 1890, un’annata non delle migliori, in cui Carolina era senz’altro già vedova, le dozzine di farsetti furono ben oltre le 200. Con un congruo numero di maniche, dieci corpetti, 50 paia di muffole e alcuni extra, come una dozzina di “camizette”. Un’azienda in salute, malgrado tutto. Un ulteriore sguardo d’insieme al registro rivela che il “giro d’affari” dei magliai di Selve Marcone era composto da una cinquantina di “negozianti”. La statistica mostra come i clienti della ditta Stellio fossero piuttosto torinesi che biellesi. In effetti, solo un commerciante di Biella, Carlo Delpiano, e due mongrandesi, Antonio e Cesare Gallo, acquistavano i prodotti selvemarconesi. Di sicuro, nel Biellese, la concorrenza doveva essere forte, ragion per cui era più facile “esportare” in contesti più grandi e meno saturati dalla manifattura locale. Vercelli (cinque clienti) era una discreta piazza, un po’ meno il Canavese, mentre l’area saluzzese-saviglianese, con un paio di negozianti a Racconigi e alcuni nelle vallate alpine (Pinerolo, Susa, Venasca, Envie, raggiunta “per tram da Revello”), costituivano una significativa porzione delle spedizioni. Ma Torino rappresentava il 40% del fatturato per Antonio Stellio e la sua vedova. Ma chi erano i clienti finali? Cioè, chi acquistava i farsetti nelle mercerie o nei negozi, oppure sui banchi del mercato?
Gli indirizzi dei negozianti, per lo più nell’area nord della città (Borgo Dora, Porta Palazzo, piazza Emanuele Filiberto, via Milano), suggeriscono una clientela di lavoratori, di operai. Proletariato urbano o urbanizzato da poco, uomini di fatica, donne di casa, non certo borghesi o nobili. D’altro canto, i farsetti in sé erano indumenti adatti ad attività manuali e la possibilità di sostituire le maniche logore garantiva una certa durabilità del “corpo” che, peraltro, poteva essere indossato come un gilet, sopra la camicia, se la stagione lo permetteva. Un altro dato rilevante è che, proprio a Torino, la clientela dei magliai di Selve Marcone era composta da un cospicuo numero di donne. Maria Barbera, Maria Bo, Emilia Boetto, Maddalena Destefanis, Maddalena Merlo, Rosa Pollano, Maria Porta, Anna Rostagno, Margherita vedova Rusca e le non meglio identificate “sorelle Reali”. Tutte esercenti negozi di abbigliamento? Difficile crederlo, anche perché in molti casi condividevano lo stesso tratto di via, il medesimo angolo di piazza o di portico. Sembra più probabile che fossero o ambulanti o portinaie degli stabili in cui risiedevano i loro clienti, da soli o con le loro famiglie. In attesa di ulteriori scoperte, da Selve Marcone è tutto.