Luoghi e percorsi
- Luoghi e percorsi
- L’alluvione del 2 novembre 1968
- Le scuole professionali
- Acqua e fabbriche
- Outlet in Provincia di Biella
- L’alluvione del 4 giugno 2002
- Quintino Sella e l’acqua come forza motrice
- La Società degli operai tessitori in panni lana di Croce Mosso
- factoBI
- A Selve Marcone i farsetti di Antonio Stellio e della sua vedova
- Grigioverde: il colore della Vittoria. E della pace?
da Eco di Biella del 3 febbraio 2025
[Danilo Craveia]
Lo spettacolo di ARS Teatrando che Vitale Barberis Canonico ospiterà nel suo stabilimento di Pratrivero il prossimo fine settimana [8 e 9 marzo 2025, n.d.a.] ha un duplice intento: avvicinare i biellesi (e non) all’Adunata Nazionale degli Alpini, ormai imminente, e ricordare che il grigioverde è stato, al di là del sacrificio umano, il più importante contributo dato dal Biellese nella Grande Guerra. Le commesse militari assegnate ai lanifici biellesi non mancarono anche nella Seconda Guerra Mondiale, ma furono di tutt’altra portata e di significato differente. Fu il conflitto del ’15-’18 a definire il fronte interno fatto di telai su cui i biellesi (e più ancora le biellesi) si attestarono e non arretrarono di un passo. Ma quella storia è già stata raccontata dal DocBi Centro Studi Biellesi in occasione del centenario della Grande Guerra. Qui, oggi, facciamo cenno a un altro capitolo, differente e successivo, inerente alle vicende del grigioverde dopo il 4 Novembre. Perché, come insegnano gli studiosi dei simboli e dei colori (sarebbe interessante leggere un libro di Michel Pastoureau su questo tema), una particolare cromia fa la Storia e la memoria più di mille fatti. La colorazione della Grande Guerra fece passare in secondo piano l’antico azzurro/blu sabaudo e Vittorio Emanuele III divenne il “re grigioverde” e il grigioverde fu il campo di battaglia politico, ideologico, sociale e culturale in quell’intercapedine storica che fu il quadriennio, aperto dal cosiddetto “Biennio rosso”, compreso tra la fine della guerra e l’avvento del Fascismo. In quel solco, lungo quella trincea, si mossero colori contrastanti: il bianco dei cattolici, il rosso dei socialisti/comunisti, il grigioverde che, volenti o nolenti, restò addosso ai borghesi liberal-monarchici, guerrafondai e capitalisti, finché non arrivò il nero che coprì tutto e tutti.
Si può osservare questo cambio di tinte leggendo i nostri giornali di allora. In occasione delle celebrazioni per la Vittoria del 1922, a sei giorni dalla “Marcia su Roma”, gli ufficiali erano invitati a partecipare alle cerimonie istituzionali indossando le uniformi grigioverdi, mentre in città le camicie nere festeggiavano il nuovo padrone dell’Italia. Ma che cos’era successo negli anni precedenti? Forse occorre un ulteriore piccolo salto all’indietro per cogliere il senso dell’evoluzione cromatica e semiotica di quel periodo. I biellesi avevano scoperto il grigioverde appena prima della Grande Guerra. Quel “non-colore” esordì con il celebre “Plotone grigio” (Battaglione Alpino “Morbegno”), un esperimento voluto da Luigi Brioschi, allora presidente della sezione di Milano del Club Alpino Italiano. Era il 1905. L’intento, lodevole, era mimetico. Nel 1911 a Biella, in piena guerra di Libia, si cercò di formare un battaglione di volontari, ossia di giovani e/o studenti (non è chiaro per quale finalità effettiva: forse prontezza in caso di necessità o anche solo per moto militar-nazionalista). Il reparto avrebbe avuto “una propria divisa non obbligatoria. Però è dovere di ciascun volontario di possedere quale distintivo del battaglione un berretto grigio-verde con a sinistra una coccarda tricolore con penna d’aquila, e le fasce quali gambali pure di grigio-verde” (dalla “Gazzetta Biellese” del 6 maggio 1911).
Eccolo lì. Nei lanifici si tesseva già, ma non era ancora un colore noto allo spettro cromatico dell’uomo della strada. Poco più di un anno dopo, “sono giunte in città le reclute del 54° Fanteria assegnate al secondo battaglione tra noi distaccato. Esse appartengono agli inscritti della classe 1892 ed ai provenienti da leve precedenti. Al deposito reggimentale le truppe furono vestite ed equipaggiate sul nuovo modello grigio-verde da campagna. È la prima volta che nella nostra città vengano destinati reparti colla nuova uniforme”. Da quel momento in poi non fu più una novità. Fu, invece, una situazione nuova la “guerra” che scoppiò all’indomani del cessate il fuoco del 4 novembre 1918. L’industria tessile, passata la piena d’ordini per il Regio Esercito, si trovò scarica e, nei primi mesi del 1919, incapace di opporsi alla crisi derivante dal brusco rallentamento produttivo. Riconvertire la produzione dal grigioverde agli altri colori non era cosa facile e c’era un’inerzia antropologica, prima ancora che industriale, difficile da vincere. Il grigioverde fu assunto a emblema del “nemico” da parte dei socialisti. I rossi, con tutta la veemenza della retorica della classe operaia proletaria, attaccarono su tutta la linea del fronte quel connubio di caste, capitalista e militarista, che proprio sui profitti generati dalle forniture di grigioverde avevano fatto fortune senza uguali. C’era del vero in quella accusa, ma anche molta esagerazione, almeno nel Biellese, almeno in un comparto come quello tessile laniero che consentiva extraprofitti illeciti, ma non come per altri settori produttivi. Naturalmente, che i margini fossero minimi non interessava ai compagni, era (giustamente) una questione di principio. E il grigioverde fu stigmatizzato. L’editoriale di propaganda apparso sul “Corriere Biellese” del 24 giugno 1919, dal titolo più che esplicito di “Delenda Militia” (pacifismo senza se e senza ma, per quanto anche non pochi socialisti, tra i quali Cesare Battisti e proprio Benito Mussolini, a ridosso dell’entrata in guerra si fecero ardenti interventisti), sosteneva che “al posto del servo in grigio-verde vogliamo vedere il libero contadino dal gagliardo petto scoperto, mietere il grano”. Di lì a pochi anni, la mietitura del grano avrebbe assunto ben diversa connotazione, ma questa è un’altra storia. Allora, però, piuttosto del grigioverde del lavoratore due volte schiavo (del capitale e della guerra), meglio la pelle nuda della libertà. Dall’altra parte, gli imprenditori avevano altrettanti problemi, ma di altra natura. Cercavano di opporre una qualche forma di resistenza a livello propagandistico, ma senza troppa convinzione né successo. Il grigioverde, visto dai capitalisti era il colore della filantropia, della beneficenza fatta di tessuto donato per vestire i più piccoli, figli degli eroici combattenti, della stessa cromia.
“Durante gli anni della bufera, ai piccoli figli di operai, soldati valorosi al fronte o nel lavorò ausiliario interno, fu prestata vigile ed amorosa assistenza aiutatrice, e molte Ditte industriali accolsero generose le pie domande del Patronato Scolastico per avere ritagli di grigio-verde, da farne calzoncini e vestiti interi ai bambini scolari sotto l’egida del Patronato stesso”. Meglio di niente, ma a ben vedere, poca cosa. In effetti, il più grande dei problemi era la riconversione alla produzione civile. Già il 25 gennaio 1919 sulla prima pagina de “La Tribuna Biellese” si leggeva un titolo di questo tono: “Salviamo l’industria Laniera italiana!”. Il grigioverde, da risorsa più che remunerativa si era trasformato in zavorra che appesantiva le imprese. Solo l’esportazione poteva innescare la ripresa. E la questione degli extraprofitti veniva liquidata con un po’ di aritmetica. “Fin dal gennaio 1916 il Ministero della Guerra stabilì i prezzi del panno grigioverde calcolando per l’industriale un utile del 4 per cento. I sopraprezzi avvenuti sulle materie prime per colpa del Governo cagionarono alla quasi totalità degli industriali lanieri delle perdite che s’aggiravano su una lira per ogni metro che forniva allo Stato. Infatti, quando si dovettero pagare gli stracci di grigioverde a lire 6,50, i cotoni a 20 lire e le lane croisée a 34 lire al kg. per fatturare il panno a lire 19,70 al metro appare evidente anche al profano che l’industriale lavorava sulla perdita e grave. Unica consolazione: non lasciare mancare il lavoro agli operai”. Discorso buonista che i rossi non accettavano, eppure anche in questo un po’ di vero c’era. Ma ancora più vero era il fatto che il grigioverde, che aveva protetto i soldati al fronte, una volta tornati operai, li lasciava non tanto liberi, quanto esposti alle letali gelate della disoccupazione. Il grigioverde dava e il grigioverde toglieva.