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La Società degli operai tessitori in pannilana di Croce Mosso viene costituita nel 1863 e in breve tempo si afferma come una delle mutue operaie di maggior spicco dell’intero circondario. Nasce ufficialmente come associazione di mutuo soccorso organizzata su base professionale (la tessitura per l’appunto), al fianco di molte altre realtà che erano sorte da quell’onda di entusiasmi e di attività fervente che, dopo la concessione della libertà di associazione nel 1848, aveva caratterizzato l’intero panorama piemontese, portando in poco meno di un decennio le organizzazioni esistenti da 16 a 132[1]. La società era ordinata da un proprio statuto, che formalmente non si discostava da quello dei tradizionali enti di mutuo soccorso già presenti a decine sul territorio; per i soci, che vi aderivano tramite la sottoscrizione di una quota, era prevista tutta una serie di diritti e di doveri, tra i quali il «promettere sul loro onore […] di essere rispettosi e obbedienti ai proprietari dei lanifici in cui lavoravano, ponendo tutta la diligenza possibile nei loro lavori». Come per le antiche corporazioni di mestiere, i membri dovevano garantire, tra diversi doveri, la capacità di svolgere il proprio lavoro in modo ottimale e il rispetto del codice societario, mentre l’accesso all’associazione era spesso vincolato a legami familiari o di parentela con un membro più anziano che intercedeva per l’ingresso di un nuovo tessitore. Oltre a fornire formazione e accesso al lavoro, lo scopo principale della mutua operaia era garantire ai tessitori un sussidio per la malattia e, in determinati casi, per la disoccupazione: ad esempio in alcune società si erogava un aiuto in caso d’infortunio che allontanava per un breve periodo dal lavoro in fabbrica. Tra le diverse forme di solidarietà messe in pratica, era prevista la destinazione di una parte dei fondi raccolti dalle quote associative per provvedere al pagamento «dell’ammontare di una sepoltura semplice» alla famiglia di un socio deceduto «che fosse in stato di assoluto bisogno», mentre tutti i membri della società avevano il dovere di prendere parte alle sepolture dei compagni defunti[2].
[1] Luigi Tommasini, L’associazionismo operaio: aspetti e problemi della diffusione del mutualismo nell’Italia liberale, in Stefano Musso (a cura di), Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, Feltrinelli Editore, Milano, 1999, p. 9.
[2] Franco Ramella, Terra e telai, Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1984, pp. 189-190.
Un caso particolare
A prima vista dunque, l’ente di Croce Mosso aveva un’impostazione comune a tante altre società operaie; in breve tempo però la società operaia si era caratterizzata per un rapido successo, diventando un punto di riferimento per i lavoratori della valle di Mosso e uno dei soggetti di spicco del mutualismo biellese. La forza attrattiva dell’associazione era cresciuta infatti di pari passo con l’accentuarsi dei cambiamenti strutturali introdotti dalla manifattura industriale; dato un contesto in cui si stava progressivamente restringendo il peso sul bilancio familiare di collaudate attività compensative, come quelle agricole o la tessitura a domicilio, e si accresceva invece la dipendenza dal salario, che era individualizzato (rendeva cioè impossibile, in caso di malattia, la sostituzione del lavoratore con un altro membro della famiglia, così come avveniva con il telaio domestico ), l’operaio era spinto ad affiliarsi alla mutua per far fronte alle necessità in caso di perdita di lavoro[3]. A fianco delle funzioni proprie del mutuo soccorso, l’interesse dei tessitori per l’affiliazione era favorito inoltre dal crescente potere che l’associazione di Croce Mosso aveva ottenuto nella gestione del conflitto tra lavoratori e fabbricanti e nel controllo degli accessi alla professione.
A circa un anno dalla sua fondazione, la Società si era infatti distinta tra i protagonisti della vertenza contro i fabbricanti tessili conclusasi, dopo un lungo sciopero generale, con la vittoria operaia e con l’approvazione del Regolamento Mancini (1864). La richiesta di aumenti salariali e di una revisione degli orari di lavoro (10 ore giornaliere) era stata avanzata proprio dalla Società, segno dunque di un’efficace capacità di mobilitazione e di rappresentanza tra i lavoranti che affollavano i saloni del mandamento di Mosso[4]. In aggiunta alla forza dimostrata nella trattativa con gli impresari per la revisione dei regolamenti di fabbrica, alla base di questo successo si può ipotizzare anche l’importanza di fattori legati alla sua composizione sociale. I tessitori, vale la pena ricordarlo, erano la categoria tessile che godeva di maggiore autorità e potere contrattuale dentro gli opifici; composti solamente da maschi adulti, spesso coincidenti con la figura patriarcale all’interno del nucleo familiare e con un ruolo riconosciuto all’interno della comunità, erano gli operai meglio retribuiti e più qualificati. Difatti, la tessitura al tempo era un comparto poco interessato dalla meccanizzazione – nei saloni degli opifici dominavano ancora il telaio a mano e ritmi di produzione che con difficoltà cercavano di svincolarsi dalle usanze e dalle tempistiche del lavoro domestico[5] – e la disponibilità di manodopera rimaneva scarsa grazie al monopolio che i tessitori erano riusciti ad ottenere sull’accesso alla professione. Sulla questione dell’occupazione in tessitura è opportuno sottolineare che la penuria di addetti al telaio e la rigidità dell’offerta di forza lavoro per questo reparto non costituivano soltanto l’esito di caratteristiche specifiche mantenute dalla produzione laniera di questa regione (es. ritardo nella meccanizzazione dei telai[6]); ma, più precisamente, tali condizioni erano anche conseguenza di un’azione organizzata dai tessitori mirata a mantenere stabile il mercato del lavoro[7]. Tra gli scopi principali per cui la Società di Croce Mosso si era avviata nel 1863, e si era poi rafforzata negli anni successivi, si ritrova proprio l’obiettivo di esercitare un rigido controllo sulle assunzioni; si evitava in tal modo che un aumento incontrollato di addetti, ne riducesse il potere contrattuale. Per essere accettati come apprendisti occorreva quindi essere fratello, padre o figlio di tessitori; si garantiva così che il patrimonio di cognizioni tecniche della lavorazione della lana fosse già in possesso dei nuovi lavoranti, in quanto trasmesso da un membro della famiglia[8]. Ancor più che il bagaglio tecnico della lavorazione al telaio, ciò che premeva maggiormente all’associazione dei tessitori era di integrare nel gruppo soltanto individui consci del sistema sociale e normativo non scritto che governava il comportamento in fabbrica e i rapporti sul lavoro. Per chi invece non aveva tessitori in famiglia, ma aspirava lo stesso a diventare apprendista, la Società pretendeva per l’iscrizione il pagamento di una «tassa di apprendistato» che variava dalle 50 alle 100 lire (né i fabbricanti né la polizia avevano mai potuto accertarne con sicurezza l’importo)[9], oltre all’abituale quota di ammissione che andava dalle 2 alle 12 lire, rendendo in questo modo molto difficile, se non impossibile, l’accesso al mestiere da parte di chi risultava estraneo alle consuete reti sociali. In definitiva, l’ingresso al mestiere non era libero e aperto a chiunque, e per lavorare al telaio negli opifici era necessario iscriversi alla società di mutuo soccorso che garantiva il collocamento del tessitore in fabbrica, pena pesanti conseguenze per i lavoranti o gli imprenditori che tentavano di aggirare tale mediazione. Nel 1865, ad esempio, i tessitori di un lanificio si misero in sciopero per ottenere il licenziamento di cinque lavoratori che non avevano aderito alla società; dieci anni più tardi, l’ammissione di un solo apprendista in tessitura contro la volontà degli altri operai provocò uno sciopero di ben novanta giorni, che si arrestò soltanto quando il fabbricante si decise a dimettere il nuovo assunto. Il controllo sui tessitori non allineati alla mutua operaia si realizzava anche all’interno dei saloni del lanificio; l’arma più comunemente usata per espellere dalla fabbrica i non iscritti – o chi inviso per accuse di «beduinismo»[10] o considerato infido – era il rifiuto di aiutarli a caricare il telaio, operazione che presupponeva la collaborazione di almeno cinque addetti e senza la quale non si poteva iniziare il lavoro di tessitura della pezza[11].
[3] Cfr. F. Ramella, op. cit., p. 190.
[4] Ivi, pp. 138-139.
[5] La caparbietà dei tessitori nel difendere pratiche risalenti all’attività domestica al telaio, come quella del «lunediare», cioè di non lavorare il lunedì (giorno di mercato e di attività agricola), furono tra le principali cause di scontro con i proprietari dei lanifici.
[6] Nel Biellese l’introduzione del telaio meccanico avviene con un certo ritardo rispetto ad altre zone interessate dallo sviluppo dell’industria tessile. Le ragioni di tale ritardo sono svariate: in primis, fino all’arrivo dell’energia elettrica negli stabilimenti, la forza idraulica derivata dai torrenti non era sufficiente a coprire il fabbisogno dei nuovi telai; in secondo luogo, il rapporto tra costi e benefici, anche in campo sociale, derivante dalla meccanizzazione della tessitura, rimase a lungo sfavorevole per i fabbricanti. Solamente dopo le grandi agitazioni del 1877-1878, gli imprenditori biellesi si convinsero che l’introduzione massiccia del telaio meccanico fosse ormai un passo necessario, a fronte del prezzo, per sgretolare il potere dei tessitori in fabbrica; in poco tempo ciò comportò la sostituzione della manodopera in tessitura, totalmente maschile, con tessitrici, meno costose e combattive.
[7] L’affidamento ai tessitori della gestione degli accessi alla professione non era stata ostacolata dai fabbricanti per molto tempo; così operando, l’imprenditore poteva contare sull’abilità del tessitore neoassunto e, cosa ancor più importante, vedeva garantita la pace sociale all’intero della fabbrica, grazie al controllo e alla struttura normativa imposta sui lavoranti dalle gerarchie operaie e dalla società di mutuo soccorso.
[8] F. Ramella, op. cit., p. 191.
[9] Lo dichiarano sia il delegato di pubblica sicurezza che i fabbricanti. Cfr. ASB, Tribunale di Biella, Fascicoli penali, mazzo 165, anno 1877, in F. Ramella, op. cit., nota n. 10, p. 208.
[10] Nelle vallate biellesi i crumiri erano chiamati «beduini». Contro i colpevoli di crumiraggio vigeva un severo codice comportamentale: chi si macchiava di tale pratica era considerato al pari di un reietto, allontanato da tutti diveniva oggetto di violenze verbali e in alcuni casi fisiche, interdetto da ogni ritrovo pubblico e perseguitato da un’atmosfera di ostilità; per le donne questa macchia comprometteva la possibilità di trovare marito.
[11] F. Ramella, op. cit., pp. 188-190
Il coinvolgimento nello sciopero del 1877
In breve dunque, grazie alle caratteristiche precedentemente trattate, la Società di Croce Mosso aveva ottenuto un’influenza indiscussa, in prima battuta sui tessitori del mandamento di Mosso e poi, attraverso l’attività propagandistica di operai della valle emigrati temporaneamente o definitivamente in altri centri lanieri, anche sui tessitori di tutto il circondario. Una simile diffusione però, congiuntamente alla forza contrattuale conquistata in fabbrica, generava tra forze di pubblica sicurezza i primi sospetti su un impegno nascosto della mutua operaia in direzione «sindacale»; e infatti, se a una rapida lettura dello statuto l’associazione non si discostava da una normale società di mutuo soccorso, un’osservazione più attenta rivelava invece una deriva verso funzioni proprie delle leghe di resistenza, allora ancora fuorilegge. Dopo un iniziale scioglimento da parte dell’autorità prefettizia, in occasione delle agitazioni del 1873, la Società fu per l’appunto tra gli indagati dalla Commissione parlamentare del 1878, che si doveva occupare di analizzare gli scioperi biellesi dell’anno precedente.
L’incredibile capacità di resistenza dei tessitori di Mosso, mostrata durante l’agitazione del 1877 protrattasi per più di tre mesi, era in crescita fin dagli anni ’60, e questo fatto non poteva essere spiegato se non con il ruolo, sempre più strutturato, di coordinamento e sostegno dei lavoranti in sciopero svolto dalla Società. In occasione dei disordini, le autorità non ebbero dubbi riguardo al coinvolgimento di primo piano della mutua di Croce Mosso, la cui influenza era già affiorata nello sciopero dei tessitori biellesi del 1863 e dieci anni più tardi in quello del 1873, e ne decretarono così lo scioglimento e il sequestro di tutti i registri. Un primo indizio di un’illecita gestione dei fondi dell’ente era stato riscontrato nel fatto che le quote mensili, aggiuntive a quelle d’iscrizione, erano molto elevate e la loro destinazione non trovava una giustificazione apparente. La cifra associativa da versare mensilmente era quasi doppia rispetto alla norma: 80 centesimi più un contributo annuale supplementare di 50 centesimi per «il fondo della cassa di riserva»[12]. Dall’analisi delle carte sequestrate emerse infatti che la Società disponeva di un fondo di ventiseimila lire depositate in un conto corrente della Banca biellese, e che una discreta parte di questa cifra, al momento dell’incursione delle forze dell’ordine, non si trovava su tale conto; questo fatto indusse il sotto prefetto ad arrestare gli amministratori della società finché tutto il fondo non fosse stato reintegrato. Il biellese Eco dell’Industria raccontava la vicenda in questi termini:«il sotto-prefetto ed il capitano dei carabinieri si recarono sul luogo e vennero arrestati alcuni principali promotori del disordine. Si ritenne che principale fautrice dei medesimi fosse la Società dei tessitori di Val Mosso e quindi venne sciolta, ed il sequestro fu posto sui registri, sulle carte e sui fondi suoi, tanto più che nel settembre del 1873 la si era già dovuta sciogliere. Ed intanto venne alla luce un fatto ben singolare che deve far sorgere serie riflessioni sull’animo di coloro che s’interessino ai sodalizi di mutuo soccorso. La Società ha un fondo di forse ventisei mila lire tra cartelle, conto corrente colla Banca biellese e cassa, il tutto affidato al presidente, ad uno dei direttori ed al cassiere della Società. Ora mi si dice che questi amministratori credettero di potersi valere dei fondi della Società per le loro private speculazioni, tantoché forse la metà del fondo sociale non si trovava più presso i consegnatari al momento del sequestro. Il nostro egregio sotto-prefetto credette suo obbligo non solo di denunciare il fatto all’autorità giudiziaria, ma di sostenere in arresto gli amministratori responsabili finché il fondo sociale non fosse reintegrato. Locchè in breve tempo avvenne per opera degli amici e delle rispettive famiglie, tanto che ora ogni avere della Società è depositato presso la Banca biellese in attesa delle ulteriori disposizioni »[13].
In sostanza, la torbida conduzione del patrimonio associativo fu ritenuta dalle autorità la prova inconfutabile che la Società destinava cospicue somme a un fondo per la resistenza, opportunamente celato sotto la voce «Fondo per la Biblioteca[14]», la cui esistenza era giustificata e apparentemente innocua, poiché tra gli obiettivi espliciti della società di mutuo soccorso vi era la costituzione di una biblioteca per l’istruzione popolare, alla cui realizzazione aveva più volte invitato lo stesso Quintino Sella. Dai rapporti di polizia però si scopriva che tali somme trovavano una destinazione ben diversa, andando a finanziare gli operai in sciopero; in aggiunta al mutuo soccorso, l’ente si era dotato di un «centro direttivo arbitro della condotta degli operai», che organizzava i tessitori degli opifici in centurie, ognuna sottoposta alla guida di un capo, e accanto al consiglio di amministrazione legalmente deputato a reggere l’organizzazione, era stato istituito un «comitato segreto», il cui presidente non coincideva con quello legalmente eletto dai soci e veniva per questo detto «presidente nero»[15]. Secondo le conclusioni dei commissari dunque la Società di mutuo soccorso di Croce Mosso fu ritenuta colpevole di aver intensificato e sostenuto l’agitazione, trasformandola in una guerra sistematica, e di aver, tramite pressioni e intimidazioni, privato gli operai di esercitare la loro libertà d’azione (cioè di recarsi liberamente al lavoro). In questo modo, i rapporti delle autorità minimizzarono però la reale partecipazione dal basso agli scioperi e il coinvolgimento consapevole di buona parte dei lavoratori, attribuendo invece le colpe dell’agitazione a pochi sobillatori, che attraverso un’organizzazione segreta avevano manipolato la massa all’oscuro del suo ruolo.
A chiusura del discorso è opportuno ricordare ancora che, per quanto riguarda il fine perseguito dalla mutua operaia in occasione dello sciopero del 1877, gli obiettivi della lotta non possono che considerarsi arretrati, essendo in gran parte volti alla difesa del mestiere artigianale e dello status dei tessitori in fabbrica. Più che un prototipo di sindacato quindi, l’ente di Mosso era piuttosto una struttura complessa, mandataria di più funzioni ed espressione di uno specifico gruppo sociale. Tuttavia, tra le resistenze al cambiamento di un ambiente ancora protoindustriale, è possibile intravedere l’infiltrazione di programmi e obiettivi nuovi che costituirono le basi della successiva trasformazione della Società in riconosciuta Lega di resistenza (nel 1911 viene inaugurata la Casa del Popolo di Croce Mosso). Lo sviluppo di nuove strategie industriali, le idee socialiste, il mutamento delle società di mutuo soccorso in leghe di resistenza erano fattori ormai entrati a tutti gli effetti all’interno dei rapporti di lavoro e dell’ambiente tessile biellese.
[12] Ivi, p. 190.
[13] Eco dell’Industria, Lettera dall’Opinione, n. 36, anno XIV, 9 settembre 1877.
[14] G. Drage, La questione operaia in Italia, da La questione operaia nei principali stati del continente europeo e d’America, Great Britain, Royal Commission on Labour, 1890, p. 308, Cfr. Relazione presentata a S. E. il Ministro dell’interno nel mese di marzo 1879 dalla Commissione d’Inchiesta sugli scioperi nominata con R. Decreto 3 febbraio 1878, Roma, 1885, parte II: Gli Scioperi del Biellese, p. 41, vedi F. Ramella, op. cit., p. 26, nota 14.
[15] F. Ramella, op. cit., p. 190. L’esistenza di un comitato di direzione segreto secondo la Commissione era ritenuto probabile non solo dall’organizzazione degli operai, ma anche dalla loro condotta, dallo stato di timore diffusosi tra i lavoratori che rendeva difficile ottenere deposizioni attendibili, dall’unanimità di intenti nel perseguitare i crumiri, dalla reticenza degli scioperanti a dichiarare i loro veri motivi, dalla rapidità di diffusione delle notizie dello sciopero. Cfr. G. Drage, op. cit., p. 308.