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Dal catalogo della mostra Fabbriche formato cartolina organizzata dal DocBi – Centro Studi Biellesi. Si ringrazia il DocBi.
Le strade, carreggiabili e ferrate, aggiungevano nuovi scenari, disegnavano tracce recenti su un territorio già naturalmente inciso dai corsi d’acqua, dai torrenti e dai fiumi, creavano maglie quasi impercettibili nel più vasto disegno del sistema idrico biellese. […]
All’acqua, alle sue qualità chimiche intrinseche, alla sua disponibilità in salti capaci di garantire energia sufficiente per alimentare i cicli produttivi, la storia dei luoghi dell’industria biellese sarà sempre legata, per lo meno fino alla diffusione, e allo sfruttamento, dell’energia elettrica. […]
Solo nel corso dell’Ottocento la necessità di disporre di energia idraulica sufficiente per attivare il ciclo produttivo avrebbe assunto preminenza assoluta. Per tutto il Settecento, infatti, l’abbondanza di energia idraulica aveva rappresentato solo un fattore accessorio nella dislocazione dell’industria laniera. Essa infatti era utilizzata solo negli stadi più elevati della lavorazione, vale a dire in quelli di lavaggio, della tintura e della rifinitura dei panni, mentre negli stadi intermedi richiedevano solo l’uso di macchine manuali. Per secoli l’acqua aveva mosso ruote a pedale e infinite controversie erano sorte sul diritto di sfruttarla: un diritto prezioso, che si era tentato di regolamentare con vincoli spesso complessi, come prezioso era il bene ad esso soggetto. A partire dai primi anni dell’Ottocento, intorno alle gualchieree agli impianti che utilizzavano i corsi d’acqua per la tintura e la rifinitura dei panni si andarono accentrando veri e propri nuclei di attività manifatturiere, rivolti a conferire una nuova dimensione al ciclo produttivo, fino ad allora frammentato. Le manifatture così concepite sorsero quasi tutte (fatta eccezione per il capoluogo, dove già allora la concentrazione dei mulini e delle gualchiere era elevata) nei comuni montani, dove si rendeva possibile sfruttare i salti d’acqua dei torrenti. Le vecchie costruzioni riadattate, così come i nuovi opifici erano tutti muniti della grande ruota, prima di legno poi di ferro, e delle indispensabili prese d’acqua. Ma già nel decennio cavouriano, anche grazie alla diffusione delle informazioni sugli assetti degli impianti industriali più recenti all’estero, fu preferita una diversa localizzazione degli opifici di nuova costruzione: questi furono di preferenza localizzati verso i centri di fondovalle, o nelle località tra la montagna e la pianura, dove il volume delle acque era costante e regolabile. Alla luce di queste considerazioni buone possibilità di insediamento erano offerte da Vallemosso, destinata a divenire, gradualmente, con la sua posizione lungo il torrente Strona, ricco di salti d’acqua, principale centro dell’industria biellese, anche a scapito della capitale tradizionale, Mosso Santa Maria; analoghe possibilità erano offerta da Biella e dal suo circondario, alla confluenza del Cervo con l’Oropa. […]
Da allora gli imprenditori avrebbero continuato ad accordare all’energia idraulica preferenza assoluta, anche quando i tempi erano ormai maturi per utilizzare come fonte di energia il carbone. Mentre in altri ambiti territoriali, come ad esempio quello inglese, era in corso il potenziamento dell’energia motrice dell’industria tessile attraverso l’installazione di più moderni impianti a vapore, gli industriali biellesi continuarono a privilegiare lo sfruttamento dell’energia idraulica, soprattutto a motivo dell’elevato costo del combustibile e delle grandi distanze che i trasporti avrebbero dovuto coprire per renderlo utilizzabile nella qualità necessaria e con la dovuta continuità.
Le caldaie a vapore – le cosiddette macchine a fuoco – furono conosciute e diffuse anche nel Biellese; ma il loro uso fu sempre complementare a quello dell’energia idraulica. Anzi, in quello stesso periodo, gli sforzi maggiori degli industriali si rivolsero a mettere in atto tutti i potenziamenti e le più ampie migliorie per l’utilizzazione della fonte di energia tradizionale. Se infatti il parziale ricorso al vapore condusse a solo limitate trasformazioni dell’assetto produttivo, in quanto nell’opificio esso provocò sostanzialmente la sostituzione delle vecchie ruote di ferro con potenti turbine, la messa a punto di tutte le possibili tecniche idrauliche per potenziare le fonti di energia tradizionali produsse sul sistema idrico interventi più decisivi, destinati a segnare in modo tangibile la conformazione di fiumi e torrenti in prossimità delle fabbriche. Chiuse, canali di derivazione, scarichi, deviazioni dei letti dei torrenti trasformarono allora la fisionomia dei corsi d’acqua, a testimonianza, anche, di un disegno di più ampio respiro che gli imprenditori tentavano in quegli anni di costruire. L’instabilità dell’energia idraulica, la sua limitatezza, la sua capricciosità e la sua imprevedibilità – che costituivano le motivazioni oggettive delle molte opere di ingegneria idraulica attuate – erano sì le ragioni prime di una produzione instabile, sottoposta all’alternanza delle stagioni e a improvvise variazioni di intensità in funzione delle variazioni del mercato e del peso crescente della concorrenza, ma costituivano anche, e soprattutto, l’altra faccia dell’irregolarità fisiologica, di comportamento e di presenza sul lavoro, caratteristica della mano d’opera, per lo meno fino all’affermarsi del sistema di fabbrica.
Solo nel corso dell’Ottocento la necessità di disporre di energia idraulica sufficiente per attivare il ciclo produttivo avrebbe assunto preminenza assoluta. Per tutto il Settecento, infatti, l’abbondanza di energia idraulica aveva rappresentato solo un fattore accessorio nella dislocazione dell’industria laniera. Essa infatti era utilizzata solo negli stadi più elevati della lavorazione, vale a dire in quelli di lavaggio, della tintura e della rifinitura dei panni, mentre negli stadi intermedi richiedevano solo l’uso di macchine manuali. Per secoli l’acqua aveva mosso ruote a pedale e infinite controversie erano sorte sul diritto di sfruttarla: un diritto prezioso, che si era tentato di regolamentare con vincoli spesso complessi, come prezioso era il bene ad esso soggetto. A partire dai primi anni dell’Ottocento, intorno alle gualchieree agli impianti che utilizzavano i corsi d’acqua per la tintura e la rifinitura dei panni si andarono accentrando veri e propri nuclei di attività manifatturiere, rivolti a conferire una nuova dimensione al ciclo produttivo, fino ad allora frammentato. Le manifatture così concepite sorsero quasi tutte (fatta eccezione per il capoluogo, dove già allora la concentrazione dei mulini e delle gualchiere era elevata) nei comuni montani, dove si rendeva possibile sfruttare i salti d’acqua dei torrenti. Le vecchie costruzioni riadattate, così come i nuovi opifici erano tutti muniti della grande ruota, prima di legno poi di ferro, e delle indispensabili prese d’acqua. Ma già nel decennio cavouriano, anche grazie alla diffusione delle informazioni sugli assetti degli impianti industriali più recenti all’estero, fu preferita una diversa localizzazione degli opifici di nuova costruzione: questi furono di preferenza localizzati verso i centri di fondovalle, o nelle località tra la montagna e la pianura, dove il volume delle acque era costante e regolabile. Alla luce di queste considerazioni buone possibilità di insediamento erano offerte da Vallemosso, destinata a divenire, gradualmente, con la sua posizione lungo il torrente Strona, ricco di salti d’acqua, principale centro dell’industria biellese, anche a scapito della capitale tradizionale, Mosso Santa Maria; analoghe possibilità erano offerta da Biella e dal suo circondario, alla confluenza del Cervo con l’Oropa. […]
Da allora gli imprenditori avrebbero continuato ad accordare all’energia idraulica preferenza assoluta, anche quando i tempi erano ormai maturi per utilizzare come fonte di energia il carbone. Mentre in altri ambiti territoriali, come ad esempio quello inglese, era in corso il potenziamento dell’energia motrice dell’industria tessile attraverso l’installazione di più moderni impianti a vapore, gli industriali biellesi continuarono a privilegiare lo sfruttamento dell’energia idraulica, soprattutto a motivo dell’elevato costo del combustibile e delle grandi distanze che i trasporti avrebbero dovuto coprire per renderlo utilizzabile nella qualità necessaria e con la dovuta continuità.
Le caldaie a vapore – le cosiddette macchine a fuoco – furono conosciute e diffuse anche nel Biellese; ma il loro uso fu sempre complementare a quello dell’energia idraulica. Anzi, in quello stesso periodo, gli sforzi maggiori degli industriali si rivolsero a mettere in atto tutti i potenziamenti e le più ampie migliorie per l’utilizzazione della fonte di energia tradizionale. Se infatti il parziale ricorso al vapore condusse a solo limitate trasformazioni dell’assetto produttivo, in quanto nell’opificio esso provocò sostanzialmente la sostituzione delle vecchie ruote di ferro con potenti turbine, la messa a punto di tutte le possibili tecniche idrauliche per potenziare le fonti di energia tradizionali produsse sul sistema idrico interventi più decisivi, destinati a segnare in modo tangibile la conformazione di fiumi e torrenti in prossimità delle fabbriche. Chiuse, canali di derivazione, scarichi, deviazioni dei letti dei torrenti trasformarono allora la fisionomia dei corsi d’acqua, a testimonianza, anche, di un disegno di più ampio respiro che gli imprenditori tentavano in quegli anni di costruire. L’instabilità dell’energia idraulica, la sua limitatezza, la sua capricciosità e la sua imprevedibilità – che costituivano le motivazioni oggettive delle molte opere di ingegneria idraulica attuate – erano sì le ragioni prime di una produzione instabile, sottoposta all’alternanza delle stagioni e a improvvise variazioni di intensità in funzione delle variazioni del mercato e del peso crescente della concorrenza, ma costituivano anche, e soprattutto, l’altra faccia dell’irregolarità fisiologica, di comportamento e di presenza sul lavoro, caratteristica della mano d’opera, per lo meno fino all’affermarsi del sistema di fabbrica.
Ma il rapporto industria-corsi d’acqua può ancora essere colto attraverso altre chiavi di lettura, più specifiche della localizzazione degli opifici. La necessità di scegliere il sito di installazione dell’opificio in funzione quasi esclusiva dell’energia idraulica disponibile comportava la sua lontananza dai centri, e di conseguenza l’aumento delle spese di trasporto di materie prime e di prodotti, che la lentezza del processo di definizione di adeguate strade carreggiabili e ferrate non faceva che incrementare. Esistevano inoltre limiti intrinseci allo sfruttamento delle risorse di energia idraulica: spesso era possibile attuare il potenziamento delle strutture tecniche che l’imprenditore era portato a perseguire sotto la positiva influenza degli sviluppi della tecnologia. Situazione, questa, che a volte imponeva il trasferimento di tutto il complesso industriale in località dotate di salti d’acqua di maggiore portata, con l’obbligo di ricostruire la fabbrica ex-novo.
Ma questi trasferimenti, che sarebbero divenuti sempre più frequenti all’apparire dell’energia elettrica, non coincidevano, di norma, con l’abbandono degli antichi opifici industriali. Questa è una delle ragioni per cui nel Biellese il patrimonio di architetture industriali è così vasto e diffuso ancor oggi. Le sedi delle prime manifatture meccanizzate lungo i corsi d’acqua non furono abbandonate. Lungo le sponde dei torrenti si verificò, al contrario, un infittimento delle sedi storiche degli insediamenti, con successivi ampliamenti, trasformazioni, rifacimenti, sopraelevazioni. L’acqua rinsaldava gli antichi legami con il lavoro, un lavoro divenuto ormai salariato, ma testimoniava, anche, il perdurare di un rapporto forte con la terra, seppure ormai trasformato. Questa “resistenza” all’abbandono della sede primitiva, o del corso d’acqua che la alimentava, è certo ancora più significativa se si pensa che alle acque biellesi non si poteva attribuire un grande valore unicamente come fornitrici di energia motrice, proprio a motivo del frazionamento della rete idrografica e del suo carattere prevalentemente torrentizio, e che solo la paziente, e costosa, opera di immagliamento e potenziamento era in grado di minimizzare i periodi di inattività cui doveva soggiacere, durante i periodi di magra, il costoso capitale fisso impiegato negli impianti.
Ma l’acqua biellese possedeva un valore intrinseco, riconosciuto già in passato particolarmente vantaggioso per la lavorazione del vello ovino. Priva di durezza permanente o temporanea, perché scorrente in terreni privi di gesso o calcari, l’acqua biellese consente di ottenere le emulsioni necessarie per il lavaggio e la rifinitura delle stoffe con minore quantità di sapone e minori pericoli di precipitazione di sali. Così le tintorie potevano usufruire di acqua allo stato naturale, anziché di acqua corretta, il che portava a notevoli risparmi nell’uso di sostanze neutralizzanti.
Maria Luisa Barelli, Anna Maria Zorgno