Fabbriche e fabbricati
- Fabbriche e fabbricati
- La schedatura degli opifici storici
- I villaggi operai biellesi
- Ciminiere
- Ciminiere e ciminiere… il Biellese
- Edilizia industriale
- Il Lanificio Maurizio Sella
- Le Pettinature Rivetti
- La sede dell’Unione Industriale Biellese
- L'”Albergo di virtù” del Santuario di Oropa lungo le rive del Cervo
- Ospizio di Carità di Biella: fabbrica di calzetti
- Pettinatura Italiana Limited
- Occhieppo Superiore e i suoi folloni
- Montagna e fabbriche: dialettica e simbiosi
- Schemi insediativi del rapporto tra fabbrica e paesaggio
Dal catalogo della mostra Fabbriche formato cartolina organizzata dal DocBi – Centro Studi Biellesi. Si ringrazia il DocBi.
Gli aggiornamenti dettati dalla innovazione tecnologica interverranno nelle strutture degli orizzontamenti con grande lentezza, sempre sulla base di sollecitazioni funzionali all’accoglimento di nuovi, più pesanti macchinari, e solo verso fine secolo con qualche attenzione alle esigenze operative delle maestranze. Alcune porzioni soltanto nell’edificio ne saranno investite, continuando l’innovazione a coesistere con tecniche e tipi costruttivi tradizionali: orizzontamenti a travetti metallici a I e voltine in laterizio convivono con i sistemi voltati in muratura dei piani inferiori e con una scatola muraria portante quasi elusivamente in pietra, e un uso limitato di mattoni pieni solo a coronamento dei vani delle aperture e nei tamponamenti sottostanti le finestre.
Anche l’introduzione delle strutture in ghisa, verificabile a partire dal 1860 sia per le strutture verticali che per quelle orizzontali, avviene senza che le caratteristiche plani-volumentriche dei grandi parallelepipedi degli opifici ne risentano in alcun modo. Nella maggior parte dei casi tale introduzione avviene in occasione del rifacimento di parti di edifici già in funzione, per i quali l’innovazione delle strutture portanti non innesca alcun fenomeno di radicale trasformazione e di modificazione nell’impianto generale e nelle dimensioni dell’edificio. La tipologia multipiano sembra così rifiutare Billese le molte opportunità di ridefinizione del proprio modello che in territorio inglese erano state al contrario subito accolte e sfruttate. In particolare l’introduzione di solai in ferro e laterizio non solo non interviene a modificare in alcun modo le proporzioni della fabbrica di fine Ottocento, ma non contribuisce neppure a alleggerire le murature perimetrali e ad aumentare le dimensioni delle finestrature, come si era ad esempio verificato, come immediata conseguenza dell’uso della costruzione metallica, nei cotonifici inglesi.
La permanenza di un modello di fabbrica alta dalle “finestre opache e rinserrate” […] è di conseguenza permanenza reale, resistente, nonostante le rare concessioni alla innovazione delle tecniche costruttive che alcuni contenitori celano al loro interno. Una permanenza che va oltre la nota divaricazione fra contenitoree contenuto, fenomeno caratteristico di molte architetture industriali ottocentesche, e l’impenetrabilità fra spazio interno ed esterno cui esso diede origine.
Così, ad esempio, l’eccezionale concentrazione di fabbriche tessili dislocate all’altezza del complesso Maurizio Sella a Biella, lungo il Cervo, e ancor oggi leggibili sia pure nelle difformità degli impianti originari, consente di apprezzare con evidenza la straordinaria continuità delle soluzioni costruttive e di architettura funzionale adottate nel corso dei decenni. Nonostante la loro collocazione in prossimità di un centro urbano con il quale erano inevitabili stretti contatti, soprattutto commerciali, e di conseguenza grazie al quale erano disponibili le occasioni di confronto con culture tecnologiche esterne, tali impianti non subirono modificazioni tipologiche rilevanti. Tra gli esempi più significativi il lanificio Boussu di antichissima origine, riordinato nel 1831 e ampliato nel 1863; il lanificio Cerruti ex Bozzallafondato nel 1881, il lanificio Trombetta risalente agli anni Sessanta del secolo scorso [1860 ndr], il lanificio Mino attivato nel 1861.
[…]
Anche laddove costruisce ex-novo la propria fabbrica, l’industriale biellese sembra scarsamente interessato a qualificarne l’immagine attraverso il riferimento a temi del decoro come tradizionalmente intesi: l’affermazione del suo prestigio, semmai, passa attraverso la rilevanza della dimensione dell’opificio, che è testimonianza reale, diretta, di capacità produttive e imprenditoriali, di un potere cioè conquistato attraverso il lavoro e l’oculata gestione del patrimonio. […] a cavallo fra Otto e Novecento, cominciava seppur lentamente a mutare: più cura è riservata al disegno degli ingressi, alla scansione dei prospetti, all’immagine che complessivamente le fabbriche vogliono ora comunicare.
La maggiore attenzione al decoro non è che il riflesso di un interesse sempre più forte rivolto ai problemi del progetto della fabbrica, della sua razionale e logica organizzazione distributiva e costruttiva, fino ai dettagli decorativi che ne caratterizzano il volto esterno. Un’attenzione che è possibile interpretare anch’essa come emblema di un atteggiamento utilitaristico: a una corretta impostazione del progetto della fabbrica corrisponderà un suo migliore funzionamento e una sua maggiore produttività, così come la “veste” esterna dell’edificio, pubblicizzando l’immagine e il buon nome dell’impresa, diverrà sostanza anch’essa, prima che la forma, del sistema produttivo, sintomo di una politica imprenditoriale che sempre più vuole incrementare quegli aspetti legati alla commercializzazione del prodotto fino ad allora trascurati.
In generale il racconto della esteriorità del modello che le cartoline offrono è tale da legittimare la persistenza di precisi rapporti tra le caratteristiche geometriche di base della composizione planivolumetrica: il rapporto tra lo sviluppo longitudinale e la manica trasversale e tra queste costanti geometriche e l’altezza dell’opificio si mantiene pressoché invariato. Rapporti dimensionali, questi, che si impostano su di un passo strutturale misurato dall’ingombro delle macchine operatrici, segnato da elementi verticali portanti sulle teste dei quali erano agganciate le derivazioni della linea primaria di distribuzione dell’energia motrice; era la ripetizione di queste strutture portanti nelle due direzioni, della larghezza e della lunghezza, a dare spessore al corpo di fabbrica. Il ciclo adottato definiva poi il numero complessivo dei piani fuori terra.
Solo quando, a cavallo del nuovo secolo, sarebbero stati interrotti i legami di dipendenza diretta con l’energia idraulica, quando la possibilità di trasportare a distanza, nei luoghi più convenienti, la nuova forza motrice assicurata dall’energia elettrica avrebbe svincolato in modo definitivo l’impianto di necessità di sfruttare la forza motrice determinata da un dislivello, naturale o artificiale, la tipologia edilizia dell’opificio di nuovo impianto avrebbe manifestato significative trasformazioni. Solo negli ultimi anni del secolo, infatti, incominciano a comparire i tipi di un repertorio funzionale innovativo: costruzione estensiva ad un solo piano con copertura a lucernario o conformazione a capannone, più idonee a garantire stabilità al macchinario e a limitare i danni in caso d’incendio.
Con l’affermarsi del cosiddetto “ciclo orizzontale” sul sistema di copertura finiscono per concentrarsi i maggiori sforzi progettuali: l’illuminazione doveva essere il più possibile uniforme, sempre più sentite erano le esigenze di una reale climatizzazione degli spazi di lavoro, ma soprattutto si imponeva la più sicura protezione dei costosi macchinari. I nuovi tipi edilizi, inoltre, favorivano il distacco del modello dell’opificio non solo dalla tipologia multipiano ma anche dai “luoghi” tradizionali di impianto. Ne deriva il trasferimento in aree che sono ora scelte per la loro prerogativa di essere pianeggianti, spesso localizzate nelle cinture urbane. […]
Così l’edificio industriale, che per quasi un secolo ha convissuto con gli elementi caratteristici di un ambiente naturalistico da cui ha saputo con saggezza e lungimiranza trarre le ragioni prime della propria sussistenza, è divenuto ora porzione urbana, consegnato nei suoi ritmi di vita e nella sua architettura a un sistema di relazioni sociali che sono anche l’esito di una avvenuta stabilizzazione della mano d’opera, e nelle quali sempre più tenue e impercettibile è divenuto il legame con la terra. Anzi sono ora le molte reverenziali suggestioni di un assetto urbanistico fondato anche sull’immagine e l’espressione della potenza economica che concorrono a caratterizzare i nuovi assetti insediativi, densi di richiami all’organizzazione della produzione e al tempo stesso alla recente strutturazione gerarchica della città. Uno degli elementi tipici dell’articolazione del nuovo paesaggio industriale inserito ai margini dei contesti urbanizzati è il recinto, che isola all’interno del perimetro edificato tutto ciò che contraddistingue, rispetto al paesaggio urbano, il moderno insediamento produttivo: dimensioni, tecnologie, materiali, ma anche un sistema di fabbrica ormai articolato in un vero e proprio sistema di vita.
E tuttavia, in alcuni casi, si assiste negli stessi anni a un ritorno della fabbrica nei luoghi di origine, le alte valli (come a Trivero per la fabbrica Zegna), dove è proprio un legame ancora forte con la terra a garantire una disponibilità sicura di manodopera.
[…]
Di questa lenta ma progressiva presa si coscienza dei problemi legati al progetto dell’edificio industriale, anche a fronte di capacità finanziarie che negli anni tesero via via a rafforzarsi, appare emblematica la storia dei lanifici Rivetti, una storia che, almeno in parte, consente di ripercorrere i principali nodi di questo racconto.
Risalta, in prima istanza, l’oculatezza della scelta operata dia Rivetti nella dislocazione dei propri stabilimenti, negli ultimi decenni dell’Ottocento, in una posizione molto favorevole – a Biella – perché posta non soltanto lungo il torrente Cervo, ma anche vicino alla linea ferroviaria Biella-Santhià: una posizione che con il tempo si sarebbe fra l’altro dimostrata ancora più vantaggiosa, sia per le successive evoluzioni del sistema stradale e ferroviario, sia per le possibilità di ampliamento garantite dalla presenza, nelle immediate vicinanze, di vasti terreni liberi. Gli ingrandimenti del nucleo edilizio iniziale dell’opificio, la vecchia fabbrica Antonio Galoppo, si sarebbero in effetti succeduti a partire già dal 1898, e poi in modo sempre più consistente negli anni compresi fra il 1920 e il 1930, connotando l’area, se confrontata con lo sviluppo industriale determinatosi lungo il Cervo, intorno al complesso Sella, per lo sviluppo edilizio orizzontale.
L’avvio nel 1912 di una proficua e duratura collaborazione con un progettista molto attivo al livello locale, l’ingegner Quintino Grupallo, testimonia d’altro canto di un atteggiamento nuovo della committenza, teso ora a ricercare una soluzione più coerente e razionale delle necessità di ampliamento che via via si presentavano. Esigenze, queste, che Grupallo interpreta e risolve a partire dai riferimenti chiari della propria formazione di ingegnere, sia sul versante della costruzione, ove appare un esempio significativo l’impiego dei nuovi manufatti in cemento armato, sia sul versante della decorazione, un aspetto che – specie per la collocazione urbana degli stabilimenti Rivetti – occorreva ora considerare con maggiore attenzione. Il nuovo ingresso alla fabbrica, pur nella variazione di ispirazione stilistica riscontrabile fra il primo progetto, che risale al 1920, e la successiva realizzazione, proprio a testimoniare l’importanza assunta dagli aspetti simbolici e di decoro dell’edificio industriale sarà a più riprese raffigurato nelle stesse immagini delle cartoline.
Si tratta, complessivamente, si una attenzione ai problemi del progetto della fabbrica che […] anche la successiva vicenda della costruzione del nuovo edificio della Pettinatura (1939) dell’architetto Giuseppe Pagano e dell’ingegner Giangiacomo Predeval, a struttura in cemento armato, intenderà porre in primo piano.
La pubblicazione su “Costruzioni-Casbella” (luglio 1942), in un numero interamente dedicato all’architettura industriale e curato da Diotallevi e Marescotti, inserendo questo fabbricato all’interno di una casistica internazionale di esempi, darà il senso e la rilevanza di un cambiamento di indirizzi che, seppure l’eccezionalità dell’intervento di pagano non consente di forzare oltre la sua reale portata, si era via via imposto anche sul territorio biellese.
Maria Luisa Barelli, Anna Maria Zorgno