Il tessile biellese
- 1882: il Biellese tessile alla ricerca del suo mito
- I libretti di lavoro del Lanificio Trabaldo Pietro Togna
- Tessile e sport
- Patrimonio e paesaggio industriale dalla tutela allo sviluppo
- La lana e le lavorazioni artigianali della lana
- Lavoro minorile nell’industria biellese dal secondo Ottocento al fascismo
- Memorie della nostra terra
- Il paesaggio sonoro dell’industria
- Terra di telai: l’industria tessile nel Biellese
- Ieri, oggi, domani
- Il protagonismo femminile nel Biellese: filantropia, lavoro sociale e mutuo soccorso
- Il Biellese nell’Ottocento: dalle comunità rurali alla società di fabbrica
- La nascita della questione operaia nel Biellese e il grande sciopero del 1877
- Il Biellese e i sarti
[da “Eco di Biella” del 28 giugno 2021: articolo di Danilo Craveia]
L’Esposizione Biellese del 1882 fu un’esperienza di notevole importanza per il circondario. Fu l’occasione per prendere coscienza dello stato delle cose su più fronti e, nello specifico, su quello dell’industria tessile. Chi si occupa della storia del territorio ha ben presente che le nostre conoscenze sul passato del Biellese, incluso quello industriale, sono il frutto anche di una stratificazione di dati e di informazioni che ha avuto momenti di particolare rilevanza. In altre parole, noi oggi “sappiamo” il Biellese che fu, soprattutto per come ci è stato raccontato. Le ricerche d’archivio vere e proprie, non così numerose e sempre meno frequenti, hanno influito relativamente sulla formazione della percezione del Biellese storico, a tutto vantaggio di una bibliografia ben più accessibile e sostanziosa. Tuttavia, per quanto quella stessa bibliografia rappresenti un patrimonio di assoluto valore, reca in sé i limiti della citazione reiterata e della autocertificazione accreditata. L’accesso alla documentazione archivistica, di per sé più complicato per svariate e tutte comprensibili ragioni, offriva e offre differenti possibilità di interpretazione e di valutazione dei fenomeni, ma sempre meno questo tipo di percorso di acquisizione di conoscenza interessa sul serio. Ma resta, per quanto “fuori moda”, la volontà di indagare ciò che ci ha preceduti secondo modalità e con sensibilità differenti da quelle che si appoggiano al “tutto è già scritto”. Per questo occorre avvicinare le fonti con rinnovata curiosità e spirito critico, tanto per cogliere aspetti nuovi in temi vecchi, quanto per ottenere conferme rispetto a quanto è stato già oggetto di analisi. Così, eccoci all’Esposizione Biellese del 1882 e, per la precisione, agli articoli apparsi su “L’Eco dell’Industria” in quel periodo, tutti dedicati alla “arte della lana” nel Biellese nelle sue varie configurazioni. Quegli scritti, in tutto undici pubblicati anonimi tra il 10 settembre e il 23 novembre 1882, rappresentano un saggio significativo di quella che era la visuale sul Biellese industriale di allora, tra ricostruzione del passato e proiezione sul futuro. Severino Pozzo aveva dato alle stampe, l’anno prima, il suo volume di Memorie storiche ed industriali colmando un vuoto non tanto bibliografico, quanto conoscitivo, che solo le “guide” stampate a partire dal 1870 (quella del Coiz risale a quella data) avevano in qualche misura arginato, ma non con intenti storiografici, né tanto meno analitici. Per trovare un contributo analitico ad ampio raggio della realtà manifatturiera biellese precedente alle pagine del Pozzo si deve retrocedere alle altre Memorie, quelle del Mullatera, del 1778, che pure non vanno oltre le descrizioni più semplici.
Di fatto, un secolo se non di buio, di sicuro di penombra, che andò a essere illuminata dal volume del 1881 e, con maggior puntualità tematica, dagli articoli di cui sopra dell’autunno del 1882. Mentre era in corso la campagna elettorale politica e mentre si raccoglievano denari a favore gli inondati del Lombardo-Veneto, l’ignoto articolista si preoccupava di sottolineare il buon esito della nostrana expo enfatizzando, quasi da tifoso, le proposte dei lanifici biellesi. L’Esposizione generale dei prodotti dell’Agricoltura, delle Arti e dell’Industria del Circondario di Biella, inaugurata il 15 agosto 1882 alla presenza di Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta, chiuse i battenti il 17 settembre in un clima di entusiasmo, sebbene ci fosse più di una ragione per non colorare di rosa l’avvenire.
Tanto per cominciare, gli accordi commerciali e doganali sottoscritti con la Francia risultavano particolarmente svantaggiosi per chi, come i lanifici biellesi, esportava molta della sua produzione proprio verso i “cugini” d’Oltralpe e verso l’Inghilterra. Ovviamente quelle pezze uscivano dai telai e dai finissaggi locali del tutto anonime e, giunte a destinazione, ricevevano un battesimo farlocco in forma di marchio made in France o made in England che aveva come effetto primario l’incremento del prezzo di mercato a esclusivo vantaggio dei marchiatori. I produttori, cioè gli imprenditori biellesi, non si lamentavano più di tanto, non per questo. Chi poteva sollevare motivate rimostranze sarebbe stato il consumatore che, nel caso fosse stato informato della situazione, avrebbe dovuto sentirsi quanto meno truffato. In effetti, il rischio più che concreto era quello di acquistare a Vercelli (ma anche a Biella…) per inglese, ossia caro e salato, un panno biellese prodotto a Pray o a Sordevolo che, se venduto direttamente in loco, senza viaggi inutili, sarebbe costato decisamente di meno. Chiaramente il marchio non è un dettaglio e la “fregatura” è insita nel commercio da quando il commercio esiste, ma allora nessuno aveva coraggio, tempo e voglia per tentare di uscire da quella palude di “sudditanza” psicologica e mercantile che il Biellese viveva nei confronti dell’estero. Doveva passare ancora mezzo secolo per vedere un diverso atteggiamento, quello di Ermenegildo Zegna e pochi altri, ma nel 1882 il conte di Monte Rubello di Trivero non era ancora nato. Quello che, invece, non piaceva ai lanieri era l’essere schiacciati tra l’incudine e il martello di una condizione produttiva e commerciale che non lasciava loro molto margine. Il prodotto finito non poteva apprezzarsi granchè, pena la perdita della clientela britannica e francese. Quest’ultima, poi, godeva anche di una politica governativa di protezione contro l’esterno e di facilitazione nell’interno che gli industriali biellesi potevano solo sognare (per esempio in tema di agevolazioni nei trasporti). Ma se la vendita dei tessuti era bloccata, non lo era affatto, in senso negativo, l’acquisto della materia prima e, più ancora, del semilavorato. Negli articoli di cui stiamo trattando è ben delineato il fenomeno che allora si stava consolidando, cioè quello dell’affermazione del filato pettinato come elemento imprescindibile per la tessitura di stoffe di qualità. E dove stava il problema? Nel fatto che da queste parti non esistevano né pettinature né filatura in grado di soddisfare la richiesta di filato pettinato. Che, di conseguenza, andava procurato tramite importazione. Ci sarebbero voluti almeno tre lustri per veder esordire nel Biellese delle pettinatrici e dei filatoi da lana pettinata. Gli stabilimenti di Tollegno e di Vigliano Biellese avrebbero cambiato l’assetto produttivo e commerciale del settore, ma molto dopo il 1882.
La tenaglia entro cui gli imprenditori lanieri biellesi erano stretti era davvero penalizzante. Tuttavia, stando alle parole del cronista de “L’Eco dell’Industria”, dalle fabbriche delle vallate e della città uscivano costantemente delle belle novità o delle altrettanto notevoli variazioni su temi già noti. A far fronte contro l’avanzata inesorabile del pettinato, stavano tanti grossi nomi dell’industria tessile laniera di allora che, pur cedendo terreno al nuovo, non rinunciavano a quel cardato che rappresentava pur sempre la base della loro produzione. La stoffa “sodata”, ossia follata, dei lanifici biellesi restava un prodotto affidabile e richiesto, specie quando era affiancato da articoli “nouveauté” nei campionari stagionali. D’altro canto, il Biellese aveva sviluppato una filiera nella filiera che viveva del riciclo di quella lana definita “meccanica”, cioè meccanicamente rigenerata, che non poteva ambire alle titolazioni fini dei filati pettinati, ma che garantiva un’onesta e robusta drapperia e qualche vezzo sul versante donna. A Pollone, soprattutto, si osava giocare con la seta e i risultati degli esperimenti dei Fratelli Piacenza erano degni di nota, pur se qualche volta “audaci” rispetto al rigore imposto dalla sobrietà di quel buon gusto un po’ bacchettone. Le flanelle della Maurizio Sella, invece, si distinguevano per “finezza, vivacità di tinta, e perfezione di lavorazione”, al segno che “tal articolo tanto in concorrenza colla Germania si faccia sì egregiamente in paese, ed al punto da nulla invidiare alle migliori qualità estere”. E i pettinati ritorti rasati dei Bozzalla, del Colongo, di Pietro Ubertalli, del Sormano, del Lora Totino? Anche la Agostinetti Rosazza e Ferrua eccelleva nella sezione dei cimati, mentre i “vellutati operati” dei Vercellone erano ammiratissimi. Boussu era inarrivabile per i suoi panni neri lisci e per quel suo “moscova” per il quale “segnano realmente un progresso nella lavorazione di una specialità che ci viene, con una specie di rabbiosa accanitezza, contestato dall’estero”.
Ma le varietà non si esaurivano qui. C’erano i “panni neri a catena in cotone (union cloth)” della Silvio e Guido Mosca. La loro maestria era da valutare doppiamente perché erano “gli unici in Italia cui spetti il merito della riuscita in un genere la cui fabbricazione andò completamente fallita in un altro importantissimo centro laniero del regno”. Prato o Vicenza…? Non è specificato. Oltre a queste tipologie si segnalavano i lucenti cheviot tessuti con le pregiate lane scozzesi, tipici per la loro caratteristica “souplesse” (morbidezza). Anche i “floconnés” suscitavano stupore con la loro ondulatezza vellutata, adatta per confezionare soprabiti. Per questi particolari prodotti era ancora la Agostinetti Rosazza e Ferrua a spiccare.
In molti, invece, si distinguevano per due tipi di tessuti per i quali il Biellese aveva avuto veri momenti di gloria nei decenni e nei secoli precedenti. Si trattava dei panni militari e quelli per le mostreggiature, per i quali si imponevano Cerino Zegna di Pianceri e Sella di Valle Mosso. La puntuale descrizione delle varie proposte, descrizione molto più ampia e articolata di quella qui sintetizzata, attesta, tra le righe, non solo l’orgoglio per una produzione che si stava espandendo per quantità (“nel 1844 il nostro circondario aveva 79 fabbriche con 11240 fusi, 816 telai e 5329 operai. Sei anni dopo i telai erano 1800 e gli assortimenti 150. Ora i lanifici ammontano a più di 120, i telai a circa 4000 e gli operai addetti alla lavorazione della lana a oltre 12.000”) e migliorando ulteriormente per qualità, ma anche la fierezza per una identità che proprio allora andava definendosi.
Nasceva la mitologia tessile biellese, la radice della narrazione di una “nazione” che aveva trovato nella lana o, meglio, nella lavorazione industriale della lana, la sua vera vocazione, la sua dimensione più potente, la sua anima. Assistere a quella genesi, di cui siamo il prodotto economico, sociale e, più ancora, culturale è affascinante. La nostra consapevolezza viene da quelle riflessioni, dalle impressioni tratte da un giro all’Esposizione, dalla ricerca di dati e di informazioni storiche e contemporanee a quell’autore ignoto che, come alcuni altri in quel periodo o appena dopo, cominciava a “sentirsi” biellese nel modo in cui lo facciamo (ancora) anche noi. Tanto da proiettare quella remota, ma nitida acquisizione di appartenenza a modelli di rappresentazione del territorio che vanno dall’autoriferimento dell’eccellenza produttiva alla vincente candidatura UNESCO. Gli articoli pubblicati su “L’Eco dell’Industria” non si fermarono ai campioni dell’esposizione né ai pannilana. Tratteggiano un Biellese multiforme, con una maglieria strutturata fin dalla fine del Settecento (“i Calanzano furono pure fra i primi e i più antichi, a occuparsi in Occhieppo Superiore delle maglierie su telai rettilinei di una qualità tanto buona che ancora adesso viene ricordata col nome di articoli Calanzano. Tale industria, che i Calanzano portarono a sì alto punto, si spense una ventina d’anni fa. La Dilla Vigna Pietro e fratello è fra le più antiche del Biellese. Essa data dal 1780. Dapprima attendeva alla fabbricazione di tessuti in filo e cotone. Nel 1822 unirono ad esse la maglieria in lana con telai antichi rettilinei, che essi comprarono a Intra e introdussero, per i primi, nel Biellese. Producevano calze drupe, a varii colori e berrette che si esportavano in Savoia ed in Sardegna. Poco dopo abbandonarono completa mente la fabbricazione dei tessuti infilo e cotone per dedicarsi esclusivamente alla maglieria”), per arrivare alla perfezione dei prodotti dei Bellia e dei Boglietti, con i loro jaquard applicati ai telai da maglia rettilinei. E un’industria cotoniera di tutto rispetto, con i Poma sugli scudi (tra le aziende del settore più importanti d’Europa), ma con altre fabbriche molto attive (“qui in Biella si applicano ad essa ben 2650 operai, in Zumaglia circa 400, in Cossato 200, in Occhieppo Inferiore, ove vi è anche la piccola manifattura di Schiapparelli e C., circa 900, a Occhieppo Superiore 1000, a Mongrando 150, a Trivero 200, a Zubiena 50, a Sordevolo 200, a Miagliano 1600, a Trivero 300, a Crevacuore 150 ed altri che possiamo dimenticare. Si fa un complesso insomma di una cinquantina di fabbriche fra grandi e piccole, per le quali lavorano otto mila persone all’incirca”). Senza omettere quei tessuti speciali che andavano sotto i nomi di reps, “stoffa per coprir mobili, la quale stoffa può essere di pura lana, di puro cotone o un misto di lana e cotone”, i tricoté di Francesco Pistono, e altri ancora, che bisognerebbe studiare per capire se possono avere un destino di riproposizione, a partire da una tradizione dimenticata. Quella particolare “fotografia” del Biellese di allora tramanda anche un distretto produttivo tutt’altro che statico, anzi dinamico e già passato attraverso a successive trasformazioni. Così come accadrà nei decenni seguenti, fino a oggi. E quelle evoluzioni non erano state indolori. Già allora si guardava al passato ricordando ditte estinte e lavorazioni superate. Le stesse situazioni si verificheranno anche in seguito. Anche noi, adesso, guardiamo indietro e ci stupiamo di chi e di come è scomparso nei flutti della fortuna ondivaga, per quanto fosse considerato “inaffondabile”.
Ma allora c’era un’incrollabile fiducia nel progresso e nelle umane possibilità di inventare la propria sorte con il lavoro. Di tutte le industrie praticabili, quella della lana tessuta costituiva il cuore pulsante del Biellese. E tuttora batte quel cuore, non altri. Ma si sbaglia se si pensa che la scelta era obbligata, come se si trattasse una predestinazione. Eppure, andò così, e così tanto profonda e rapida fu l’adesione che non si è più verificato alcun seppur minimo distacco. Scriveva il cronista senza nome: “È una ineffabile soddisfazione per noi il constatare come il Biellese vada sempre più progredendo in una industria tradizionale ereditata dagli avi i più remoti e nulla tralasci per tenersi costantemente sollevato all’altezza dei tempi e pronto ad ogni evento. Il che ci deve rallegrare non poco, pensando che così non ci sarà difficile di lottare contro gli scogli più duri. E che il genio della lana protegga il Biellese!”. Per quel che vale, è il caso che lo protegga ancora un po’…