Il tessile biellese
- 1882: il Biellese tessile alla ricerca del suo mito
- I libretti di lavoro del Lanificio Trabaldo Pietro Togna
- Tessile e sport
- Patrimonio e paesaggio industriale dalla tutela allo sviluppo
- La lana e le lavorazioni artigianali della lana
- Lavoro minorile nell’industria biellese dal secondo Ottocento al fascismo
- Memorie della nostra terra
- Il paesaggio sonoro dell’industria
- Terra di telai: l’industria tessile nel Biellese
- Ieri, oggi, domani
- Il protagonismo femminile nel Biellese: filantropia, lavoro sociale e mutuo soccorso
- Il Biellese nell’Ottocento: dalle comunità rurali alla società di fabbrica
- La nascita della questione operaia nel Biellese e il grande sciopero del 1877
- Il Biellese e i sarti
Tra Ottocento e Novecento
Nel 1886, anno della prima legge italiana sul lavoro minorile, nel Biellese si stava creando l’assetto industriale e territoriale che, giunto a compimento nel primo decennio del Novecento, sarebbe perdurato fino ai tardi anni Sessanta. In seguito all’unità d’Italia la produzione industriale aveva superato il “tradizionale andamento sussultorio correlato alle oscillazioni dei prezzi dei cereali sul mercato locale;…[e] il volume della produzione era venuto accrescendosi progressivamente.” [1] Nel 1861 il Biellese, con 94 lanifici e 2166 telai che occupavano circa 6500 lavoratori [2] , era ormai da tempo il principale centro laniero italiano. Con l’aumentare dei lanifici e del numero delle persone in essi impiegate, era naturalmente aumentato anche il valore commerciale delle stoffe di lana prodotte nel biellese: dai circa 10 milioni di lire nel 1854-1855, si era passati a 28 milioni nel 1869 e a 34 milioni nel 1872 [3] . Nelle fabbriche si erano progressivamente accentrate tutte le fasi della lavorazione della lana, cosicché alla fine dell’Ottocento si poteva già intravedere quale sarebbe stato, nel secolo successivo, il tipo di azienda prevalente nel Biellese: il lanificio a ciclo integrale.
Così come quando la lavorazione della lana veniva svolta principalmente in piccoli laboratori casalinghi, anche ora che era accentrato nelle fabbriche il lavoro dei fanciulli veniva considerato normale.
“In genere, l’attività lavorativa nell’opificio di un bambino cominciava intorno ai dieci-dodici anni, spesso in filatura, dove svolgeva la mansione di attaccafili alle dipendenze di un filatore, oppure, in altri reparti di fabbricazione in cui era addetto ad attività ausiliarie, inserito in gruppi diretti da operai adulti. Il fanciullo cominciava così ad acquisire l’abitudine al lavoro di fabbrica, ai suoi tempi rigidi e alle sue esigenze.” [4]
L’occupazione dei fanciulli nelle fabbriche, spesso a stretto contatto con i padri, era favorita da almeno due precise esigenze delle famiglie degli operai: innanzitutto bisogna considerare le necessità di guadagno, poi la possibilità dell’apprendimento di un mestiere che avrebbe garantito un futuro ai figli, ma che contemporaneamente sarebbe stato un investimento per la vecchiaia dei genitori. I lavoranti avevano quindi dei validi motivi per spingere affinché i propri figli, sia maschi che femmine, venissero assunti nelle stesse fabbriche e negli stessi reparti dove lavoravano loro.
Allo stesso tempo, anche si fabbricanti andava bene questa prassi poiché “la famiglia costituiva uno strumento preziosissimo di trasmissione di attitudini al lavoro industriale sia in termini di cognizioni professionali, sia in termini di socializzazione all’attività di fabbrica.” [5] Bisogna poi considerare il fatto che gli adulti esercitavano un controllo sui bambini che con ogni probabilità erano portati, appena era loro possibile, a sottrarsi al lavoro e a trovare modo di giocare anche all’interno delle fabbriche.
In quegli anni, non senza resistenze da parte dei tessitori, che tradizionalmente erano una categoria molto unita e che negli anni erano stati promotori di molte battaglie “sindacali”, si stava affermando il telaio meccanico, che veniva introdotto su vasta scala nelle fabbriche biellesi e che portava all’abbassamento della soglia di età di ingrasso negli opifici dei fanciulli. Infatti, il telaio meccanico richiedeva molta meno forza fisica rispetto al tradizionale telaio a mano, a cui erano addetti eslcusivamente uomini adulti: questo facilitò l’espulsione dal lavoro di fabbrica di un gran numero di operai tessitori, i cui salari erano tra i più alti tra quelli dei lavoratori delle fabbriche laniere. Ai nuovi telai meccanici vennero impiegate principalmente le donne, i cui salari erano sempre stati più bassi, quindi le famiglie si trovavano nella necessità di mandare a lavorare i figli prima per compensare le entrate più basse.
“La legge sul lavoro minorile […] era regolarmente disattesa, sia per la resistenza di molti imprenditori – che ad essa si erano fieramente opposti – sia ‘pel gran bisogno di lavor e di pane delle famiglie povere’. Già al tempo della crisi degli anni cinquanta in queste comunità le manifatture si erano riempite di bambini di età inferiore a quella ritenuta normale per l’ingresso in produzione; ma successivamente […] il fenomeno aveva preso le sue dimensioni patologiche.” [6]
Negli anni ottanta dell’Ottocento, nel Biellese, il lavoro minorile copriva il 15% dell’intera occupazione ed era concentrato principalmente nei lanifici. Per sintetizzare efficacemente quali potevano essere le ripercussioni sul fisico delle persone che iniziavano a lavorare in fabbrica sia dalla più tenera età basta un dato rilevato da Luigi Einaudi nella sua inchiesta sul lavoro in Val Sessere svolta alla fine dell’Ottocento riguardante le statistiche di leva: “Talune cifre tratte dalle statistiche di leva, fanno temere che si vada incontro ad una degenerazione fisica delle classi operaie […]. Quest’anno a Cossato su 50 coscritti se ne riformarono, soprattutto per deficienza toracica e di statura e di cattiva conformazione, 48. Medie di riformati altrettanto alte si dicono generali per tutte le valli biellesi.” [7]
Nel 1909 venne pubblicato sul Corriere Biellese, bisettimanale socialista, un articolo su un rapporto steso dagli ispettori governativi del circolo di Torino dopo un sopralluogo nelle fabbriche biellesi. In quell’occasione furono riscontrate numerose irregolarità soprattutto per quanto riguardava i libretti, la presenza e la compilazione dei registri e il rispetto delle norme relative agli orari.
Sette anni dopo, sempre sul Corriere Biellese, venne pubblicata una corrispondenza di Germano d’Eriva che era molto critico nei confronti della situazione in cui si trovavano a lavorare i bambini: la causa di maggiore preoccupazione era il lavoro notturno a cui erano obbligato, nonostante i divieti di legge.
“Attualmente in tutti gli stabilimenti lanieri del Biellese è abolita di fatto ogni legge sul lavoro notturno dei ragazzi e delle donne. E basterebbe – a convincere di ciò chi non ci credessi – che si pigliasse la briga di mettersi alle sette del mattino fuori di uno stabilimento laniero per vedere uscire dei piccoli bambini e bambine e donne che entro quelle mura vi ebbero a trascorrere 12 ora di lavoro. […]
qui potranno osservare ragazzine ancora impuberi che devono, per un tozzo di pane, trascorrere tutta una notte di lavoro in mezzo a ragazzi di ogni età. Qui vedrebbero che nelle due ore di riposo i ragazzi e le ragazze vanno a giacere le stanche membra, promiscuati gli uni agli altri, su cenci od altro sudiciume.” [8]
Non bisogna dimenticare quali fossero le condizioni dei locali dove si svolgeva il lavoro. Per molte ore di seguito gli operai si trovavano in ambienti rumorosi, male illuminati, spesso malsani e umidi, poiché la maggior parte delle prime fabbriche erano sorte vicino ai torrenti; a seconda delle stagioni e dei reparti gli ambienti potevano inoltre raggiungere temperature molto elevate o essere freddi; in tintoria i prodotti usati rendevano l’aria maleodorante; alcune macchine erano pericolose e non mancavano infortuna anche gravi.
Le dure condizioni di lavoro, sommate all’alto numero di persone che si trovarono a lavorare nelle fabbriche, favorirono il sorgere di associazioni di lavoratori e di partiti politici che si fecero promotori di lotte per il miglioramento della posizione degli operai: nel 1886 il Biellese contava 64 società di mutuo soccorso attive nei comuni dell’intera area, nel 1892 venne fondato il Partito socialista e nel 1901 la Camera del lavoro di Biella. Il sindacato nel Biellese nei primi vent’anni del Novecento vide crescere la sua influenza tra le masse operaie arrivando ad avere 15000 iscritti nel 1918, 23000 nel 1919 e 34000 nel 1920. [9]
Gli anni della dittatura fascista
Nel 1922, anno della presa del potere da parte di Mussolini “nel settore tessile laniero e serico […] lavoravano 95000 bambini […] Nel biellese su 80000 addetti, 40000 donne sottopagate e 20000 bambini, […] lavoravano 12 ore al giorno.” [10]
Ecco come veniva presentato il problema del lavoro dei bambini nel 1923 su Il Biellese:
“Al termine di ogni anno scolastico molti fanciulli, sia dell’uno che dell’altro sesso, appena dodicenni si presentano agli uffici comunali per ottenere il libretto di ammissione al lavoro.
Ciò avviene specialmente nei dintorni di Biella, nonché nei paesi dove ci sono opifici che, per necessità di lavoro e sovente per compiacere i genitori, si fanno complici di un ignobile sfruttamento.
Accade che, senza vagliare le condizioni di robustezza di fanciulli appena dodicenni, senza necessità della famiglia, si concede il libretto per l’ammissione al lavoro.
Peggio ancora. Succede che, quando un fanciullo non ha compiuto tutti i corsi di scuola obbligatori nel suo paese, richiede certificato di incapacità intellettuale, per poter passare senz’altro al lavoro, e tale certificato gli viene concesso. Nei quali casi riteniamo che si commetta per lo più un vero delitto contro la fanciullezza e contro la dignità della patria.
Per poter legalmente rilasciare il certificato si deve ben tenere presente che le disposizioni legislative e regolamentari richiedono che prima si abbia riguardo ai risultati degli studi percorsi dal presunto incapace e che, soltanto dalla disamina di tali risultati l’autorità si convince positivamente della deficienza intellettuale del fanciullo, può permettergli di recarsi al lavoro pur non avendo compiute le classi obbligatorie nel paese cui appartiene.
[…]
Questo diciamo: una rigorosa applicazione della attuali disposizioni legislative ma vorremmo che il nostro governo, come provvede a tante altre necessità, pensasse anche a questa: pel bene dell’umanità, per l’affetto che abbiamo alla fanciullezza, pel decoro della patria nostra non dovrebbe essere più permesso dalla legge che un ragazzo lasci la scuola per andare al lavoro prima del quattordicesimo anno almeno, e sempre che abbia compiuto il corso elementare e che le sue condizioni psicologiche non abbiamo assolutamente a risentire nocumento dal lavoro chi viene addetto.” [11]
Per fanciulli e fanciulle entrare in fabbrica ancora bambini era spesso un passo obbligato, a volte anche desiderato: incominciare a lavorare era uno spartiacque tra l’infanzia e l’età adulta.
Una delle principali motivazioni che spingevano i genitori ai propri figli ancora bambini a lavorare in fabbrica era la necessità di avere maggiori entrate. Tuttavia la paghe dei fanciulli erano misere, anche in confronto alle già basse paghe degli adulti. Inoltre, durante il ventennio fascista, il potere contrattuale dei lavoratori era praticamente nullo e i proprietari delle fabbriche poterono abbassare progressivamente i salari, ridurre o aumentare gli orari di lavoro a seconda delle loro necessità, accrescere insomma i livelli di sfruttamento, senza trovare una vera opposizione nel debole sindacato fascista.
L’industria laniera uscì, non senza fatica, dalla fase di riconversione del dopoguerra, ma venne investita in pieno dagli effetti della crisi iniziata a Wall Street nell’ottobre del 1929. Tuttavia bisogna sottolineare che non era stata solamente la grande depressione a mettere in difficoltà le industrie tessili: vennero a mancare “i presupposti su cui era basata la crescita negli anni Venti: piena libertà di reperimento della materia prima e delle attività commerciali, piena libertà delle scelte produttive con un orientamento che prendeva a modello l’industria anglosassone e che puntava ad una concorrenza diretta sul mercato internazionale con prodotti qualitativamente elevati.” [12]
Infatti, durante gli anni Trenta, oltre che dalle difficoltà del mercato internazionale e dalle chiusure protezionistiche di molte nazioni, gli industriali furono messe in grosse difficoltà dalla politica autarchica del regime fascista che, a partire dal 1934, impose una serie di divieti, obblighi e condizionamenti che soffocarono le manifatture.
A tutto questo bisogna poi aggiungere che il settore tessile era marginale nelle linee di sviluppo della politica economica fascista, che dava la precedenza a industrie come quella siderurgica, quella meccanica e quella chimica. La situazione dell’industria tessile laniera si aggravò notevolmente dopo il giugno 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia.
Non esistono dati ufficiali relativi all’occupazione minorile nel Biellese durante il Ventennio, ma si possono ricavare dati parziali dall’analisi dei documenti di alcune ditte. Bisogna inoltre tenere presente che il personale infantile, soprattutto se con un’età in cui non era legalmente possibile lavorare, veniva impiegato per lo più negli opifici dispersi e nelle piccole filature a domicilio, quindi non esistono documentazioni di alcun tipo.
Per coloro che invece ottenevano il rilascio del libretto di lavoro dal comune non si può certo affermare che andassero tutti a lavorare subito in fabbrica, tuttavia non si può ignorare che nel Biellese le fabbriche tessili rappresentassero una grossa fetta dell’economia locale e assorbissero gran parte della manodopera.
Nonostante i dati a disposizione siano parziali e lacunosi (non esistono dati ufficiali relativi a quanti non richiesero il libretto e che continuarono gli studi) si possono trarre alcune conclusioni: la maggio parte dei ragazzi che richiedevano il libretto di lavoro lo faceva non appena la legge lo consentiva (alcuni anche prima). Bisogna inoltre sottolineare che la maggior parte aveva frequentato e superato almeno la quinta elementare e che solamente una bassa percentuale dei libretti era stata rilasciata a fanciulli che non avevano i requisiti adducendo come motivazione i l’incapacità intellettuale o un’autorizzazione ministeriale: i minori di 14 anni che risultavano dispensati dagli obblighi di legge per avere il libretto di ammissione al lavoro erano 25 sui 387 ai quali era stato rilasciato dal 1928 al 1937.
Nel settembre 1934, cinque mesi dopo che il Parlamento italiano aveva approvato la nuova normativa sul lavoro dei fanciulli, la prefettura di Vercelli ha compilato una lista degli operai occupati nelle ditte tessili del Biellese: su 33844 operai i fanciulli erano 3374, quasi il 10% [13] .
Serena Bolla
[1] F. Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento, Torino 1998, p. 155.
[2] F. Ramella, C. Ottaviano, M. Neiretti, L’emigrazione biellese fra Ottocento e Novecento, Milano 1986.
[3] F. Ramella, Terra e telai, op. cit., p. 155.
[4] Ivi, p. 212.
[5] Ivi, p. 214.
[6] Ivi, p. 264. Le “Disposizioni circa il lavoro delle donne e dei fanciulli” del 19 giugno 1902 costituiscono quindi la prima legge organica che affronta, insieme al lavoro delle donne, quello minorile. Questa legge fu oggetto di un acceso dibattito parlamentare tra governo e socialisti. Questi ultimi richiedevano un limite di età più alto rispetto a quello proposto dal governo (15 anni anziché 12); il totale divieto del lavoro notturno per minorenni e donne di ogni età; un orario di 6 ore giornaliere per maschi e femmine al di sotto dei 18 anni, 8 ore tra i 18 e i 20 anni e per tutte le donne di ogni età. Nella proposta socialista erano inoltre previsti due periodi di 6 settimane, uno prima e uno dopo il parto, per la protezione delle donne in gravidanza. Il 1 articolo della legge approvata dal governo stabilì che “i fanciulli dell’uno e dell’altro sesso per essere ammessi al lavoro negli opifici industriali, nei laboratori, nelle arti edilizie e nei lavori sotterranei delle cave, delle miniere e delle gallerie, devono avere almeno l’età di 12 anni compiuti” (elevato a 14 nel 1904). Viene vietato il lavoro notturno ai maschi di età inferiore ai 15 anni e alle donne minorenni; si fissa un limite di 8 ore fino ai 12 anni di lavoro giornaliero e di 11 ore per fanciulli/e dai 12 ai 15 anni ed è resa obbligatoria una pausa di un’ora ogni 6 ore di lavoro. Per gravidanza e puerperio fu garantito solo un mese. A questa legge fanno seguito la legge Orlando del 1904, che innalza l’obbligo scolastico a 12 anni e istituisce 2 anni , il V e il VI, di corso popolare e i programmi Orestano che precisano gli insegnamenti da sviluppare nella nuova organizzazione della scuola elementare. La legge del 1902 di tutela del lavoro minorile verrà però applicata molto lentamente, come dimostra l’inchiesta del Ministero del 1905 che segnala molte infrazioni, in particolare nell’industria tessile e mineraria.
[7] L. Einaudi, Le lotte del lavoro, Torino 1924, p. 41.
[8] G. d’Eriva, Italia di dolore ostello, in Corriere Biellese, 10 marzo 1916.
[9] L. Modanino, La Camera del lavoro di Biella dall’armistizio al patto di Palazzo Vidoni (1918-1925), in AA.VV., L’altra storia: sindacato e lotte nel biellese 1901-1986, Roma 1987, p. 67 e p. 80.
[10] R. Bracaloni, Otto milioni di biciclette. La vita degli italiani nel ventennio, Milano 2007, p. 112.
[11] Il Biellese, venerdì 10 agosto 1923.
[12] C. Della valle, Operai, industriali e Partito comunista nel biellese: 1940-1945, Milano 1978, p. 2.
[13] Centro di documentazione dell’industria tessile biellese allestito presso la Fabbrica della Ruota di Pray, fondo Valle, Mazzo 4, Libro matricola.