Il tessile biellese
- 1882: il Biellese tessile alla ricerca del suo mito
- I libretti di lavoro del Lanificio Trabaldo Pietro Togna
- Tessile e sport
- Patrimonio e paesaggio industriale dalla tutela allo sviluppo
- La lana e le lavorazioni artigianali della lana
- Lavoro minorile nell’industria biellese dal secondo Ottocento al fascismo
- Memorie della nostra terra
- Il paesaggio sonoro dell’industria
- Terra di telai: l’industria tessile nel Biellese
- Ieri, oggi, domani
- Il protagonismo femminile nel Biellese: filantropia, lavoro sociale e mutuo soccorso
- Il Biellese nell’Ottocento: dalle comunità rurali alla società di fabbrica
- La nascita della questione operaia nel Biellese e il grande sciopero del 1877
- Il Biellese e i sarti
Tratto da Fumne. Storie di donne. Storie di Biella, a cura di P. Corti e C. Ottaviano, Torino, Cliomedia Edizioni, 1999; nello specifico i testi si appoggiano al cap. 4: Le filantrope, di D. Maldini Chiarito, pp. 191-199 e al cap. 6: Operaie e sindacato: il lavoro in fabbrica, pp. 311-349.
Donne e filantropia
Nel corso dei secoli, ma in particolare nell’Ottocento, l’attività sociale e filantropica diventa prerogativa tipicamente femminile. Costrette a districarsi tra impegni domestici, cura dei figli e severa morale, le donne trovarono una fondamentale, nonché unica, possibilità di espressione ed impegno in ambito pubblico nel dedicarsi alla filantropia. Si trattava ovviamente di appartenenti a famiglie aristocratiche o alto-borghesi, per le quali occuparsi di beneficenza, di carità, di scuole o mense, di eventi mondani o salotti, costituiva l’unica scappatoia per esulare dal loro ruolo tradizionale, casalingo e materno, e partecipare alla vita pubblica attraverso canali accettati dalla società e dalla famiglia. È proprio la carità quindi, antico dovere delle donne cristiane a portarle fuori casa [1].
In ambito biellese la condizione della donna presenta tratti peculiari. Se di norma la scena della filantropia è dominata dalle esponenti delle famiglie più ricche e importanti della città, che attraverso questo canale consolidano il loro prestigio e la loro influenza in città – si pensi ad esempio a Torino l’imponente opera assistenziale e l’impegno sociale messo in campo dalla marchesa Giulia di Barolo – le medesime caratteristiche non si riscontrano a Biella.
Partendo dall’analisi di una delle famiglie illustri della città, quella dei Sella, il modello dell’aristocratica filantropa sembra non trovare riscontro. Osservando rapidamente la figura di Clotilde Rey Sella, moglie del celebre Quintino, si tratteggia un’esistenza spesa all’insegna dell’impegno materno e coniugale, certamente molto attiva, ma totalmente dedita alla cura della famiglia e passata in continua attesa di un marito spesso lontano e indaffaratissimo. La sua vita si concluse infatti senza aperture verso l’esterno, dato il lavoro molto impegnativo da svolgere in seno al nucleo familiare, e ciò traspare chiaramente dalle pagine del suo Diario, scritto tra il 1861 e il 1865 [2]. Il suo percorso di vita fu in buona parte simile a quello di Rosa Sella, madre del famoso statista, che mise al mondo venti figli, ne allevò dieci, e visse collaborando strettamente con il marito alla gestione dell’impresa di famiglia. Sulla stessa riga si colloca anche Clementina Mosca, sposata a 16 anni, nel 1851, a Giuseppe Venanzio Sella, la quale, come le precedenti, non sembra disporre di spazi di libertà tra le pesanti incombenze e responsabilità derivanti dall’amministrazione domestica e familiare. Come emerge dagli appunti biografici scritti dalla figlia Maria e conservati presso l’archivio Sella, la gioventù di Clementina «fu malinconica nel nudo appartamento della fabbrica. Continue gravidanze (ebbe quindici figli), cure ai bambini, lotte colle persone di servizio e colle balie e molto, molto lavoro materiale» [3]. La gestione della servitù e dei possedimenti della famiglia, dalle risaie vercellesi e della tenuta vinicola di Lessona, ai prati e campi dati a mezzadria e alla collina di San Gerolamo, assorbiva completamente la giornata della donna.
Nel corso delle loro attività, è probabile che Rosa, Clotilde e Clementina ebbero occasione di fare elemosina, ma di un loro impegno in tal senso non rimane una traccia che si discosti dal saltuario gesto privato. Dalla lettura di diversi carteggi e documenti, è possibile notare come queste donne riuscissero a occuparsi di carità, pur rimanendo «dietro le quinte»; le mogli, infatti, influivano sui mariti, ricordando loro di fare beneficenza e di inviare sussidi ad asili o altri enti che si occupavano di carità. Si trattava tuttavia di donazioni episodiche o contingenti, mentre mancava il suggerimento o l’intenzione di avviare un’attività filantropica continuativa o strutturale legata alla fondazione di un istituto benefico.
In definitiva dunque, come emerge da uno scritto di Quintino Sella che ricorda la madre e il suo fondamentale apporto alla crescita dalla famiglia, l’importanza dell’attività della donna è sì riconosciuta, ma il suo peso rimane relegato nelle mura domestiche. «Più conosco il mondo e più veggo quanta parte abbia la donna nell’avvenire della famiglia e della casa» scriveva Quintino alla cognata Clementina Mosca, segno di una concezione della donna come portatrice di valori e doveri fondamenti, ma profondamente esclusivi. L’ingente impegno domestico, la mancanza di tempo, la scarsa possibilità di uscire da casa, di organizzare reti sociali e di gestire denaro in modo autonomo, privarono queste donne, sebbene privilegiate rispetto ad altre, delle componenti essenziali per poter diventare filantrope. La situazione era per l’appunto radicalmente diversa per le benefattrici torinesi, per citare le più famose, Giulia di Barolo e Costanza D’Azeglio, che invece furono incoraggiate e sostenute dalla famiglia e dai mariti a intraprendere opere filantropiche di ampio respiro e a dedicare spazi rilevanti della loro quotidianità alle relazioni sociali e alla beneficenza.
Occorre specificare che, anche nel Biellese è presente l’interesse, comune a tutte le grandi famiglie in quel periodo, per la carità e per la creazione di enti benefici, ma qui si presentano delle particolarità; documenti non ancora approfonditamente studiati sulla famiglia Sella sembrano raccontare che sono gli uomini a gestire tutto, anche la filantropia che normalmente era delegata o condivisa con le donne.
In questo quadro si possono tuttavia riscontrare delle eccezioni.
È il caso di Eva Sella, figlia di Quintino e Clotilde, che sembra incarnare il profilo della benefattrice tradizionale, che lega il proprio nome, il proprio lavoro alla creazione di un’istituzione benefica. Nata nel 1865 e morta prematuramente, trascorse la sua giovinezza nella casa paterna dedicandosi prevalentemente agli studi: frequentò l’Università di Torino affrontando lo studio di fisica, chimica, botanica, matematica, geometria analitica. La particolarità di Eva rispetto alle altre donne della famiglia è di non sposarsi e di non avere figli; libera dai doveri e dalle responsabilità del matrimonio e della maternità, fu messa nella condizione di ricercare altrove il suo ruolo femminile. Per questo motivo profuse il suo impegno a favore dell’istruzione, fondando nel 1893-1894 la Scuola superiore femminile e nella direzione e gestione dell’ente fu in grado di trovare la sua ragione di vita. Eva dunque sembra corrispondere al modello classico della ricca benefattrice, che attraverso un’istituzione si occupa dei poveri, li soccorre, li istruisce, in funzione del progresso sociale. La sua vicenda esistenziale, per il momento poco studiata, rivela tratti interessanti e meriterebbe ricerche più approfondite, in particolare la sua volontà di creare una scuola femminile che si proponeva di introdurre le donne nel mondo dell’istruzione e del lavoro, in favore di un’emancipazione che le sottraesse progressivamente dal loro ruolo di subordinate.
Al fianco di Eva Sella si possono citare altri due importanti esempi che vanno controcorrente rispetto a quanto detto sull’ambiente biellese: Eleonora Massel di Caresana e Sofia Cacherano di Bricherasio. Entrambe incarnarono infatti la figura della dama benefica e si spesero nell’attività a favore dei bambini e delle famiglie bisognose della campagna biellese. La marchesa Massel Corbetta Bellini di Caresana fondò nel 1908, a Morzano, una frazione del comune di Roppolo Biellese, un Asilo infantile e una Scuola per l’Educazione domestica intitolata al nipote Emanuele Cacherano di Bricherasio (uno dei principali fondatori della F.I.A.T., morto improvvisamente nel 1904, a soli 35 anni). Per il suo impegno sociale la donna fu decorata della medaglia d’oro dei benemeriti dell’educazione infantile e dell’istruzione popolare con Decreto Reale del 5 febbraio 1911; alla sua morte, avvenuta 27 aprile dello stesso anno, la gestione dell’opera filantropica fu affidata alla nipote e sorella di Emanuele, Sofia di Bricherasio, con il compito di migliorare gli scopi e gli intendimenti dell’Istituzione, «con l’introduzione di tutte quelle migliorie suggerite dai tempi e dal progresso». A questo scopo l’Istituzione viene eretta in Ente morale il 22 gennaio 1914, con la finalità di mantenere aperti a Morzano «un Asilo Infantile per i ragazzi poveri d’ambo i sessi e di ogni condizione» e una « Scuola Femminile comprendente le prime tre classi elementari a beneficio delle ragazze povere in cui le Allieve siano avviate alle faccende di casa, di cucina, di cucito, di maglia e possano acquistare anche quei primi rudimenti di agricoltura che sono necessari al buon andamento di una famiglia di agricoltori»; una formazione e un insegnamento legati ai lavori di carattere agricolo erano ritenuti fondamentali per creare una scuola fortemente integrata nel territorio e frenare il crescente esodo dalle campagne innescato dallo sviluppo industriale dell’Italia settentrionale. Per queste ragioni, la fama dell’Opera Pia si diffuse oltre i confini del Biellese e, anche a Sofia di Bricherasio, l’11 luglio del 1926, fu consegnata ufficialmente una medaglia d’oro per decreto del Ministero dell’Istruzione Pubblica [4].
[1] Cfr. M. Perrot, Uscire, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne. L’Ottocento, a cura di G. Fraisse e M. Perrot, Bari, Laterza, 1991, pp. 446 ss.
[2] Cfr. G. Quazza, L’utopia di Quintino Sella. La politica della scienza, Torino, Comitato dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1992, vedi capitoli 10-11.
[3] Vedi Maria Sella, Nota biografica sulla madre Celestina Mosca vedova di Giuseppe Venanzio Sella di Maurizio, 1935.
[4] Vedi L. Degiovanni, D. Eusebietti, G. Giordano, Pionieri nel biellese, Morzano di Roppolo, s.d.
Donne e lavoro sociale: carità e mutuo soccorso femminile nel Biellese
Se per il Biellese sono scarsi gli esempi di beneficenza e di filantropia che si realizzano attraverso le figure delle dame benefiche, la città e il territorio offrono al contrario un contesto fecondo per la fioritura di canali alternativi attraverso i quali far fronte ai bisogni di carità e solidarietà. Le crescenti esigenze di una società in via d’industrializzazione trovarono, a cavallo tra Otto e Novecento, una risposta in forme innovative di organizzazione, più attente ai bisogni della popolazione e dello sviluppo produttivo; ad esempio, in nome di un progresso che coinvolgesse l’intera società, furono istituite scuole di carattere professionale, mirate alla formazione tecnica e manifatturiera, e altrettanto numerose scuole operaie di avviamento all’occupazione. L’onda del positivismo, della fiducia nel cambiamento sociale e delle nuove dottrine politiche coinvolse anche fasce sempre più rilevanti dei ceti bassi, soprattutto gli operai (i più interessati dal lavoro in fabbrica e dalle trasformazioni in atto), che iniziarono a prendere consapevolezza del loro ruolo sociale e politico e a riconoscersi, sotto l’influsso delle idee socialiste, come classe sociale, come soggetti in grado di emanciparsi e generare cambiamento. Da ciò conseguiva che la carità non poteva più essere intesa come un atto paternalistico, scaturito dall’alto e dipendente dall’impegno pubblico di un ricco mecenate o dall’elargizione momentanea di benefattori mossi dalla compassione religiosa o dall’attenzione per i meno fortunati, ma assumeva invece i connotati del «lavoro sociale», cioè di un’attività collettiva, popolare, che partendo dal basso mirava alla costituzione di reti e associazioni con finalità solidali, della quale si era contemporaneamente fruitori e attori. Secondo tale concezione, le classi popolari dovevano essere artefici del cambiamento e del miglioramento delle loro condizioni di vita, di lavoro, d’istruzione. Non aveva quindi più senso parlare di filantropia e filantrope; il rinnovato concetto di solidarietà, nato principalmente in fabbrica, non è più quello del povero (o della donna) che chiede l’elemosina e che viene soccorso dalla generosità di un ricco benefattore, ma quella del povero che in quanto lavoratore rivendica condizioni migliori alle quali, dato il suo lavoro, ha pieno diritto ad aspirare. Da tutta questa serie di bisogni, rivendicazioni e conquiste nacquero strutture sociali inedite, sorte proprio per far fronte a necessità quotidiane e concrete e per organizzare e coordinare la solidarietà e l’aiuto reciproco tra la popolazione; ne erano principale esempio le società di mutuo soccorso, le cooperative vinicole e di consumo, i circoli ricreativi, le biblioteche popolari.
Nella diffusione dell’associazionismo giocarono un peso rilevante il contesto industriale e la presenza operaia, e ciò è particolarmente evidente nel Biellese, dove accanto all’industria tessile si sviluppò una fitta rete di società di mutuo soccorso e di circoli operai. Detto questo, se si considera l’alta percentuale di manodopera femminile presente nelle fabbriche biellesi, la posizione e il coinvolgimento delle donne nella nuova concezione di «lavoro sociale» e nello sviluppo delle mutue operaie appare tutt’altro che trascurabile. Per le operaie biellesi, divise tra l’impegno domestico e l’impiego nelle manifatture, non poteva più sussistere la figura della donna che passivamente riceveva carità e assistenza, ma, poiché parte integrante della società e dell’impianto produttivo, era necessario invece lottare per migliorare la propria condizione. La larga partecipazione femminile alle nuove forme organizzative è provata dalla nascita sul territorio di associazioni e società di mutuo soccorso che ricalcavano quelle maschili (da cui le donne erano escluse). Dall’elenco delle Società operaie di mutuo soccorso biellesi nel secolo scorso (1851-1872) raccolto da Luigi Petrini, risulta infatti che, dal 1869 al 1872, sorsero sul territorio sette società esclusivamente femminili di artiere e operaie, che si proponevano principalmente di tutelare la salute e l’istruzione delle iscritte: a Biella (254 socie), a Pollone (149 socie), a Occhieppo Superiore (114 socie), ad Andorno (95 socie), a Ponderano (70 socie), a Sagliano (83 socie), a Sordevolo (181 socie). Nel 1878-1879, a Croce Mosso, roccaforte della resistenza dei tessitori, fu fondata la Società di mutuo soccorso fra le artiere e operaie del mandamento di Mosso, alla cui origine si riscontrava una fusione tra l’attenzione per i problemi legati al mondo del lavoro e i principi della carità cristiana.
In conclusione dunque, all’interno della società biellese si stava esaurendo quella realtà sociale sostanzialmente immobile, di cui la filantropia era stata a lungo espressione. L’avvento della realtà di fabbrica e le nuove correnti politiche stavano sgretolando una visione sociale in cui ogni cosa stava rigidamente al suo posto, dove i ricchi elargivano risorse ai meno fortunati per guadagnarsi meriti, prestigio, visibilità sociale, e i poveri ricevevano passivamente; allo stesso tempo la società industriale stava spostando la condizione della donna, i rapporti sociali e di solidarietà su un terreno nuovo, che in parte risulta già largamente dissodato da studi e ricerche[5].
[5] Vedi L. Moranino, Le donne socialiste nel Biellese. 1900-1918, Vercelli, Istituto per la storia della resistenza in provincia di Vercelli Cino Moscatelli, 1984
Operaie tra fabbrica e sindacato
Se si parla della condizione delle donne nel Biellese, non si può prescindere dall’affrontare la questione della loro presenza all’interno delle manifatture tessili. Peculiarità di questo territorio è proprio l’ampio utilizzo di manodopera femminile in fabbrica, che raggiungeva infatti percentuali altissime e spesso molto distanti dalla media nazionale, anche per il comparto industriale. Filatrici, orditrici, tessitrici, rammendatrici affollavano i saloni degli opifici; l’introduzione di nuovi macchinari aveva progressivamente semplificato e velocizzato il processo produttivo permettendo la sostituzione di operai qualificati con lavoranti a basso costo, le donne per l’appunto e i bambini[6].
Nonostante la forte presenza in fabbrica però erano riscontrabili profonde differenze e penalizzazioni nei confronti delle donne; stessa mansione e stessi orari comportavano retribuzioni diverse tra uomo e donna. La mancanza di parità salariale, malgrado fosse stata conquistata a livello locale a fine guerra (Contratto della Montagna 1944), rimase a lungo un miraggio, sia a livello locale sia nazionale; anzi in più occasioni gli accordi nazionali della Fiot tesero a penalizzare e a erodere i diritti e la posizione privilegiata, rispetto al resto d’Italia, che le biellesi avevano conquistato nel dopoguerra. Per questo motivo, quella dell’equiparazione del salario restò a lungo una delle principali lotte per le donne del circondario, che la ottennero (per alcune categorie tessili privilegiate, come la tessitura) solamente agli inizi degli anni ’60.
In generale, la condizione delle operaie biellesi si attestava come pesante e discriminatoria. Oltre alla differenza di retribuzione, in periodi di mancanza di lavoro, le donne erano le prime a farne le spese con il licenziamento, per di più non beneficiavano delle più semplici forme di tutela per la maternità: anche quando imposti per legge[7] (ad esempio l’istituzione di un locale adibito all’allattamento e di un asilo nido aziendale), gli obblighi venivano in molti casi ignorati o adempiuti dagli imprenditori con scarsa attenzione. Le insufficienti misure assistenziali e la durezza del lavoro obbligavano le lavoratrici all’arduo compito di coniugare gli orari della fabbrica con la cura domestica; l’appoggio alle reti sociali fuori e dentro all’opificio e il ricorso al mutuo soccorso erano di frequente fondamentali.
Il peso della presenza femminile nel comparto tessile divenne nel tempo sempre più significativo anche sul piano della contrattazione di migliori condizioni lavorative; le donne erano ormai un soggetto di primo piano all’interno della fabbrica non più ignorabile sia dagli impresari che dal sindacato, come dimostra il famoso sciopero del 1901 contro l’introduzione del doppio telaio per singolo lavorante, scoppiato in tessitura – quindi in un reparto femminile – al Lanificio Cerruti. Inizialmente assunte per sostituire i tessitori e porre fine al loro potere contrattuale, le giovani impegnate nei nuovi telai meccanici si erano rivelate in poco tempo tutt’altro che remissive, ma al contrario consapevoli di poter lottare e rivendicare miglioramenti della loro posizione. Tuttavia occorre evidenziare che, nonostante la componente femminile in fabbrica costituisse la maggioranza del corpo operaio, non si riscontrava all’interno della rappresentanza sindacale una proporzione adeguata al numero delle lavoratrici. I rappresentanti del sindacato infatti erano quasi tutti uomini, mentre le donne seppur ampiamente presenti e attive nelle commissioni interne alla fabbrica, raramente entravano a far parte della gerarchia sindacale. Ciò dipendeva da più fattori: in alcuni casi pesava il timore di ritorsioni sul lavoro per la propria attività sindacale, in altri entrava in gioco una certa reticenza da parte delle stesse operaie ad assumere un incarico direttivo, dovuta a sentimenti d’inferiorità o alla mancanza d’istruzione. Principalmente però, l’ostacolo maggiore restava l’impossibilità di coniugare i numerosi impegni del sindacato, spesso distanti e non retribuiti, con tutta la serie di doveri materni e familiari ai quali la donna era deputata. Pur sussistendo una discreta divisione dei compiti domestici e di cura dei figli con il marito, caratteristica tipica di un contesto industrializzato, il tempo e le risorse a disposizione delle lavoratrici rimanevano comunque molto limitati e spesso insufficienti per poter scalare i vertici del sindacato. L’accesso delle donne a ruoli di responsabilità fu quindi conseguenza di un lento processo, mentre al contrario il protagonismo delle operaie biellesi ebbe importanza centrale nelle grandi lotte sindacali e politiche fin dalla loro introduzione nelle fabbriche; proprio le lavoratrici tessili furono per il sindacato la punta di diamante delle rivendicazioni e delle conquiste salariali e normative ottenute nell’industria laniera: dalla parità di salario, alla riduzione dell’orario di lavoro, alle tutele della salute e della maternità.
[6] Vedi F. Ramella, Terra e telai, Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1984, cap. 10. Quest’ultimo passaggio era stato particolarmente evidente in tessitura, dove l’acquisto dei telai meccanici aveva permesso ai fabbricanti di sostituire con manodopera femminile i tessitori, categoria scomoda per l’elevato potere contrattuale e la tenacia nella difesa dei propri interessi.
[7] Legge Noce 860 del 26.8.1950.