Il tessile biellese
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- I telai siciliani di Andrea Camilleri e i lader bieleis
I telai siciliani di Andrea Camilleri e i lader bieleis
[da “Eco di Biella” del 19 maggio 2025 – Danilo Craveia]
Vecchia storia, nuovo post su IG: Biella che rubava i telai
Tre, otto, dodicimila macchine siciliane portate nel Biellese?
Revisionare i revisionisti, è come una scala di Penrose
Due premesse. La prima: i social abbondano di esche. Questa volta, consapevolmente, ho abboccato. La seconda: revisionare i revisionisti è un esercizio rischioso. Anche se la storiografia è, in buona parte, un susseguirsi di revisioni più o meno autorevoli, assecondare il flusso vischioso, come sto per fare, equivale a muoversi su una scala di Penrose. Il caso: mi sono imbattuto su Instagram in questo post (testualmente): «Altro che unità nazionale: quella del 1861 fu un’operazione di conquista, e la Sicilia ne pagò il prezzo. Lo raccontava anche Andrea Camilleri, con amarezza e ironia: nel primo decennio post-unitario, ben 7000 telai furono smontati in Sicilia e trasferiti al Nord, a Biella, centro emergente dell’industria tessile piemontese. Furono portati via non per modernizzare il Sud, ma per spegnerne l’economia. Il Regno delle Due Sicilie, con le sue manifatture tessili (come quelle di Alcamo o Palermo), disturbava i piani di una “nazione” che voleva un solo polo industriale: il Nord […]. I telai rubati sono il simbolo di una rapina legalizzata, di un Mezzogiorno spogliato per nutrire l’“Italia” del Nord. Non fu unificazione: fu colonizzazione».
L’ho riletto un paio di volte, per essere sicuro di aver capito bene. Il post del profilo “il regno libero” indica alcune fonti a sostegno: Nicola Zitara, L’Unità d’Italia: nascita di una colonia; L. De Crescenzo, Il Sud dalla Borghesia alla Questione Meridionale; Paolo Mieli, I conti con la storia e – appunto – Andrea Camilleri in interviste e interventi non meglio precisati, ma tant’è. A questo punto ero già sulla scala di Penrose, e lo sono tuttora. Adesso, forse, anche qualcuno di voi. Il “j’accuse” di cui sopra, pur fatta la dovuta tara social, non è robetta. In attesa di leggere il volume del dottor Zitara, avrei letto quello di De Crescenzo, ma è introvabile (anche nel Sistema Bibliotecario Nazionale). Nel libro di Paolo Mieli non mi pare di aver riscontrato una disamina specifica circa la questione dei telai, ma potrebbe essere una svista mia. Non resta che affrontare niente di meno che il geniale creatore del commissario Montalbano. Prima, però, voglio dichiarare che sul fatto che l’unificazione nazionale non sia stata indolore per il Sud c’è poco da discutere. Il “Re galantuomo” non poté rimanere sordo al grido di dolore degli italiani oppressi dai Borbone, ma la liberazione è suonata poi come una nota dolente in non poche circostanze, anche sanguinose (Bronte docet). Quindi le ombre non mancano sul Risorgimento visto dal Meridione e, non c’è dubbio, i punti oscuri non sono ancora stati illuminati del tutto. Tuttavia, pur con questo assunto indiscutibile, scambiare l’unificazione con una colonizzazione, mi pare ardito nei concetti e nei termini. Non mi risulta che da Borgovercelli, Ceresole Reale, Gravellona Toce o Moncalieri gli spietati piemontesi siano partiti per fondare colonie sulle splendide coste siciliane, ma potrebbe essere una svista mia. Torniamo ai telai. Verissimo, Andrea Camilleri ha detto e scritto sull’argomento, ma non parlò di furti con destrezza da parte di “lader bieleis”.
Riferendosi a La mossa del Cavallo, suo romanzo del 1999, si espresse così: «Credo che l’Unità d’Italia fosse indispensabile, voluta dalla Storia, voluta dagli italiani stessi anche se nei cinquant’anni successivi si sia fatto di tutto per dividere in due l’Italia. Nel 1859 i telai in attività in Sicilia erano 12.000. Cinque anni dopo con l’Unità d’Italia sono 700. Una serie di leggi messe in campo dal primo governo nazionale spostò la produzione a Biella. Il Nord tolse al Sud il piacere di godersi la vita». In effetti, nel Biellese, i tessitori, che fino ad allora, con buona pace di Pietro Sella e dei loro padri coscritti, si erano dilettati di altre amene attività, dopo quelle leggi nefaste (quali?) iniziarono a passare le lunghe giornate in fabbrica godendosi la vita, perché il lavoro ai telai, com’è noto, genera felicità. Nel 2008, in un’intervista concessa a Roberto Cotroneo, il maestro disse: «Quando fu fatta l’unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così». Il numero iniziale dei telai siciliani era sceso del 33%. Su “L’Unità” del 5 luglio 2010 tornò sul tema e sostenne che, dopo il 1860, «i telai, ottomila ce n’erano in Sicilia e chiudono nel giro di due anni, perché si preferiscono i telai biellesi». Nel 2015, nella raccolta I romanzi di Vigata e altro ancora, riecco i telai. Ma non erano più ottomila, bensì tremila. «E la stoffa che è incominciata ad arrivare da Biella l’abbiamo dovuta pagare a prezzo doppio. E la gente che si guadagnava il pane coi telai è andata, con rispetto parlando, a minarsela».
Ora, con altrettanto rispetto parlando, evidenzio che Andrea Camilleri non ha mai accusato i biellesi di aver sottratto i telai siciliani per poi piazzarli lungo il Cervo o sul Sessera, a Sordevolo o a Valle Mosso. C’è una notevole differenza e, sempre con rispetto parlando, le parole hanno un peso a Biella come a Catania, credo. Ciò detto, richiamo il commento del prof. Augusto Marinelli su www.mezzogiornoerisorgimento.it: «Il fatto è che Camilleri si sbagliava. Nella Sicilia preunitaria c’erano di certo migliaia di telai, anche più di ottomila, ma non c’era l’industria tessile, come lui sembra credere: quei telai erano azionati da migliaia di donne che in casa, oltre alle usuali incombenze, si dedicavano alla filatura o alla tessitura per sopperire ai bisogni domestici», quindi artigianato puro. «Ancora negli anni Novanta dell’Ottocento, peraltro, secondo un’indagine statistica condotta dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio nelle province dell’isola […], l’industria tessile casalinga non solo non era scomparsa ma contava circa ventimila telai; e i tessuti migliori continuavano ad essere importati soprattutto dalla Gran Bretagna, com’era accaduto per tutto il secolo». Il commento si chiude così: «Camilleri rimane un grande scrittore contemporaneo e i suoi quadri della società siciliana anche ottocentesca sono per noi preziosi: ma farne una fonte storica, come qualche sprovveduto ha fatto e continua a fare, è francamente sconsigliabile».
Aggiungo: dodicimila telai… Quante navi sarebbero servite per spostarli? Nessuna traccia di un simile trasporto? E poi, dove metterli quassù? Non in fabbrica: il Biellese industriale utilizzava già allora altre macchine. Non in casa: quelli che servivano c’erano già. In tutto, all’Unità d’Italia, in Biella e convalli c’erano duemila telai negli opifici e altrettanti fuori. Dieci anni dopo il numero era cresciuto, forse, di qualche centinaio di unità (2800 nel 1876), non di sette/ottomila e nemmeno dei tremila dell’ultima versione del grande Camilleri. Naturalmente, in ottica sud-complottista, le statistiche del neonato Regno d’Italia sarebbero da considerare false e bugiarde, ma in mancanza di altri indicatori affidabili… Per esempio, quelle di Francesco Perni Maggiore, palermitano, che visse l’unificazione nazionale e ne colse, da scienziato sociale e da raffinato statistico, le luci e le ombre. E lasciò scritto (1896): «La Sicilia non è stato mai un paese manifatturiero, né può aspirare al protezionismo; e le stentate manifatture, che all’ombra di una mal ponderata protezione esistevano sotto i Borboni, caddero al 1861 al soffio della politica del libero scambio, che allora fortunatamente imperava; nè il paese ne venne a soffrire». Biella non rubò telai a nessuno. Forse fu commercialmente aggressiva, ma non a discapito di un’industria tessile laniera inconsistente come quella della Sicilia. Ancora con rispetto parlando, il profilo “Il Regno libero” invita ad avere un “cuore brigante”. Niente di meglio: chi scrive di Storia non può non averlo, se non vuole essere servo o, peggio ancora, disonesto intellettualmente. A partire dalle citazioni corrette e dalle fonti correttamente interpretate, in primis quelle (sbagliate in sé) di un gigante come Andrea Camilleri.