Il tessile biellese
- 1882: il Biellese tessile alla ricerca del suo mito
- I libretti di lavoro del Lanificio Trabaldo Pietro Togna
- Tessile e sport
- Patrimonio e paesaggio industriale dalla tutela allo sviluppo
- La lana e le lavorazioni artigianali della lana
- Lavoro minorile nell’industria biellese dal secondo Ottocento al fascismo
- Memorie della nostra terra
- Il paesaggio sonoro dell’industria
- Terra di telai: l’industria tessile nel Biellese
- Ieri, oggi, domani
- Il protagonismo femminile nel Biellese: filantropia, lavoro sociale e mutuo soccorso
- Il Biellese nell’Ottocento: dalle comunità rurali alla società di fabbrica
- La nascita della questione operaia nel Biellese e il grande sciopero del 1877
- Il Biellese e i sarti
Il Biellese e i sarti
[di Danilo Craveia, per Vitale Barberis Canonico, luglio 2023]
Sebbene nell’oggi la sartoria non rappresenti uno degli elementi di maggior rilievo nel tessuto economico e produttivo del Biellese, nel ieri la sartoria del e nel Biellese ha, invece, una storia consistente e profonda.
Attualmente, fatte le dovute eccezioni (prima di tutto quella che porta il nome del ben noto Giovanni Barberis Organista), i sarti biellesi sono numericamente pochi e non più così celebri. Il che può risultare paradossale se si considera la realtà tessile biellese in senso quantitativo e, più ancora, qualitativo.
La “materia prima” di assoluta eccellenza non manca, mancano però gli artigiani che, con creatività e maestria, saprebbero farne buono, anzi buonissimo uso. È questa una questione su cui occorre riflettere, anche per le ricadute occupazionali con specializzazione di alto livello che la sartoria (ri)attivata in loco potrebbe generare.
Il legame tra il Biellese e la sartoria va ricercato nel passato. Un passato che si potrebbe definire glorioso, se non altro per l’ampiezza cronologica e per la rilevanza delle testimonianze.
Si ha notizia di un sartor, tale Iacobus, che viveva e lavorava a Biella nel 1245.
Nella Biella medievale la corporazione dei sarti, anzi dei sartores, era una tra le più importanti. Ancora prima dei drappieri e dei tessitori, i sarti cittadini avevano redatto gli statuti che avrebbero regolato la vita della loro corporazione o collegio. Correva l’anno 1296.
Nel quattrocentesco affresco detto “Il Cristo della domenica” anche le cesoie dei sarti “feriscono” con il loro lavoro festivo il corpo di Nostro Signore. Anzi, in basso a sinistra del dipinto si nota proprio un sarto che, da dietro il banco su cui si riconoscono due rotoli di panno, non santificava la festa e si dedicava al suo commercio commettendo un grave peccato. In effetti, il primo degli statuti dei sarti era dedicato proprio al lavoro festivo: assolutamente vietato! E il divieto iniziava già dopo i vespri del sabato sera, così com’era vietato il lavoro notturno nelle vigilie dei giorni di festa.
Gli statuta offrono uno scorcio molto interessante circa la vita dei sarti biellesi dell’ultima parte del Medioevo. E alcune di quelle norme risultano particolarmente curiose.
I sarti dovevano partecipare obbligatoriamente al funerale di un loro collega, a patto che il defunto avesse compiuto più di sette anni… Come in altri mestieri, si cominciava presto e, probabilmente, quelli che oggi sono bimbetti delle scuole elementari, allora erano, se non artigiani fatti e finiti, senz’altro degli esperti apprendisti. Al funerale bisognava partecipare con un grosso cero e non si poteva non lasciare un denaro alla famiglia del morto.
Tutti i sarti della corporazione, se interrogati dai consoli del Collegio, dovevano dire la verità. E nessun sarto poteva dire o fare alcunché contro il Collegio.
I sarti biellesi, in origine, veneravano Sant’Alberto. Probabilmente si trattò di attendere che il culto di Sant’Omobono si propagasse fino a Biella.
Nessun sarto poteva lavorare pezze dalle cimosse incerte o illeggibili, senza il previo assenso dei tessitori che avevano prodotto tali pezze.
Da sempre i sarti erano in strettissimo contatto con i drappieri e negli statuta sono regolamentati i rapporti tra le due categorie artigianali.
Il Collegio dei Sartori eleggeva un consigliere in Consiglio Comunale quindi i sarti avevano anche un certo potere amministrativo e politico. Questo potere durò per tutto l’Ancien Régime. Di quell’antico splendore si trova ancora qualche traccia negli stranomi di alcuni cognomi biellesi (Casaccia Sartor, Martinazzo Sartor ecc.).
Nel 1874, il Collegio dei Sarti della Città di Biella, un tempo fiorente corporazione ormai ridotta a pochi affiliati, destinò tutto il proprio capitale sociale (153 lire) al da poco eretto “Ricovero di Mendicità” cittadino, meglio noto come “Belletti Bona”. Oltre al denaro fu donato all’istituto un quadro raffigurante Sant’Omobono da Cremona loro patrono. Nella patria dei tessuti non c’era più futuro per i sarti e i pochi rimasti avevano deliberato di fare un’opera buona pregando gli amministratori del ricovero “di tener memoria i necessitosi di detto mestiere se si presentasse l’occasione”.
La figura di Omobono Tucenghi da Cremona (morto nel 1197), venerato come santo dalla Chiesa Cattolica (la sua festa ricorre il 13 novembre), è particolarmente cara ai sarti, dei quali è il santo patrono. Ma è anche il patrono dei lavoratori tessili in generale. Omobono Tucenghi, figlio di un sarto, fu un abile e stimato commerciante di stoffe. Ricchissimo, ma senza figli, praticò largamente la beneficenza e la carità anche come forma di devozione. Morì improvvisamente durante una messa e immediatamente, vista la sua indiscutibile generosità, si diffuse la fama della sua santità, tant’è che fu canonizzato dopo appena due anni.
Nel 1889 i sarti attivi in città erano dodici. Un’altra ventina aveva bottega nel resto del territorio biellese.
A ridosso della Prima Guerra Mondiale sembrò che la sartoria biellese potesse rinascere. E in quel periodo il Biellese non solo disponeva di validi artigiani capaci di soddisfare tutte le richieste del mercato interno, ma anche di veri e propri “creativi” in grado di farsi notare a livello internazionale. È il caso di Pietro Balagna da Mosso Santa Maria, celebrato a Londra come il “Raffaello della moda”.
Secondo la stampa dell’epoca, “i costumi che escono dai suoi laboratori appena indossati, paiono dipinti sulla persona”. L’atelier ove lavorava il talentuoso mossese era quello della Louis Girard & Pietro Balagna, al 72 di New Bond Street West. Intervistato da un giornalista nostrano in visita in Inghilterra, il Balagna spiegò che “il paese più difficile per fare il sarto da donna è Londra, per la sola ragione che la donna inglese ha una posa sua speciale e cammina molto differente dalle donne degli altri paesi. Una delle cause di questa differenza è lo sport, troppo uso nella donna, e l’abuso di questo ne deforma la linea alterandone anche l’andatura. Difficile assai è il vestire una signora inglese, molto più difficile di qualunque altra signora del continente. Bisogna prima di tutto studiarne la posa, l’andatura, i vuoti troppo frequenti che bisogna riempire. E perché un abito possa essere artisticamente fatto deve adattare la persona sia in piedi che seduta ed in qualunque posizione si trovi”. Il nostro conterraneo sosteneva che occorreva “di una donna discreta farne una perfetta” e che più che sarti, a Londra era necessario essere artisti.
Lo sviluppo storico della sartoria nel Biellese ovviamente anticipa di molto quello dell’industria tessile nostrana. L’artigianato dei drappieri e dei tessitori è naturalmente coevo, da sempre, mentre i lanifici arrivarono molto dopo. I primi opifici della protoindustria (XVIII secolo) e gli stabilimenti industriali veri e propri (dalla metà del XIX secolo) trovarono i sarti ancora in piena attività e fornirono loro la migliore delle materie prime prodotta dai telai meccanici mossi con la forza dell’acqua dei torrenti.
Alla fine del Settecento, più precisamente nel 1777, in tutto il Biellese furono censiti 246 lanifici (da quelli con un solo telaio a quelli che ne avevano 20 o 30, quindi poco più che laboratori artigianali, e la maggior concentrazione assoluta era a Portula). Queste realtà occupavano circa 5000 persone. All’epoca tutto il territorio contava circa 50.000 abitanti, quindi il comparto tessile rappresentava il 10% della forza lavoro. Il Biellese restava un’area a trazione agro-silvo-pastorale, ma il grado di “industrializzazione” era molto avanzato rispetto al resto del Regno di Sardegna e ad altre città, anche più grandi. In quel periodo la “manifattura” era considerata come una chimera di facili guadagni e di facili rovine… L’agricoltura e la pastorizia erano ancora consigliate dai saggi come le attività di maggior affidabilità.
A Mosso, una delle “culle” dell’industrializzazione tessile (le prime macchine arrivarono proprio a Valle Mosso quarant’anni dopo il censimento del 1777), dove si contavano 237 telai in grado di produrre, in un anno, poco meno di 6000 pezze (ogni pezza misurava circa 50 bracci, cioè 30 metri, il che significa 180 mila metri). Il lanificio più grande in assoluto nel Biellese, in quel periodo, era quello di Giovanni Battista Bullio di Occhieppo Superiore, con i suoi 729 operai. I Sella di Mosso erano sei volte più piccoli. In Biella la “fabbrica” più cospicua era quella dei Gromo, che dava lavoro a 500 persone. Gli Ambrosetti e i Vercellone di Sordevolo, i protagonisti del Seicento e della prima metà del Settecento, erano in evidente flessione: la manifattura tessile creava e distruggeva ingenti fortune nel giro di poco tempo.
Di Giuseppe Barbero, attivi a Trivero e “papabili” per essere avi dei Barberis Canonico di oggi ce n’erano due. Il primo aveva due operai e produceva “mezzelane”. Il secondo, con quattordici operai, produceva “mezzelane” e “saglie”.
Nel 1894, nel Biellese erano attivi 70.000 fusi di filatura (che arrivavano a quasi 100 mila includendo Borgosesia e Grignasco) che alimentavano poco meno di 3000 telai distribuiti in almeno 100 stabilimenti principali (spesso a ciclo completo), senza contare le varie decine delle fabbriche di piccole o piccolissime dimensioni dedicate a lavorazioni specifiche. All’inizio del Novecento, anche grazie alle commesse militari dovute alla Grande Guerra, il comparto tessile laniero biellese subì un’ulteriore consistente espansione, ma i sarti non godettero delle stesse condizioni favorevoli. L’unica sartoria militare di Biella aprì e chiuse già durante la stessa guerra.