Il tessile biellese
- 1882: il Biellese tessile alla ricerca del suo mito
- I libretti di lavoro del Lanificio Trabaldo Pietro Togna
- Tessile e sport
- Patrimonio e paesaggio industriale dalla tutela allo sviluppo
- La lana e le lavorazioni artigianali della lana
- Lavoro minorile nell’industria biellese dal secondo Ottocento al fascismo
- Memorie della nostra terra
- Il paesaggio sonoro dell’industria
- Terra di telai: l’industria tessile nel Biellese
- Ieri, oggi, domani
- Il protagonismo femminile nel Biellese: filantropia, lavoro sociale e mutuo soccorso
- Il Biellese nell’Ottocento: dalle comunità rurali alla società di fabbrica
- La nascita della questione operaia nel Biellese e il grande sciopero del 1877
- Il Biellese e i sarti
Quella del tessile Biellese non è una storia fatta soltanto di fabbriche, di tessuti, di telai e di grandi imprese, ma è anche e soprattutto il risultato di una complessa e particolare fusione tra gli elementi industriali e le comunità del territorio. Lo stretto rapporto tra i biellesi e l’industria tessile deve, se non la sua origine che si ritiene medioevale, senza dubbio il suo punto centrale di svolta nell’arrivo, nel 1816 in Valle Strona, dei macchinari tessili importati dalle Fiandre da Pietro Sella. Quel momento infatti segna, seppur lentamente, l’ingresso della modernità, della manifattura organizzata e poi dell’industria, all’interno di un mondo essenzialmente rurale e artigiano, avviando un secolare processo di rivoluzione industriale caratterizzato da complesse innovazioni e resistenze. Nell’arco dell’Ottocento, in sostanza, il connubio tessile-Biellese prende vita e si radica profondamente in una comunità che ancora oggi, a distanza di due secoli, conserva una vocazione per la lavorazione dei tessuti, per la maestria artigiana e imprenditoriale.
Il Biellese si caratterizza dunque per una precocità rispetto al resto d’Italia nello sperimentare le trasformazioni e i processi socioeconomici conseguenti all’avvento dell’industria; per questo motivo, la diffusione del comparto laniero lo rende un caso di studi emblematico nella trattazione dell’articolata transizione tra artigianato e fabbrica capitalistica, tra comunità rurale e società industriale e operaia[1]. A inizio Ottocento gli assetti sociali delle vallate Biellesi rispecchiavano ancora l’aspetto delle comunità di villaggio del secolo precedente. La popolazione era per la maggior parte legata a un’economia di sussistenza, tipica del mondo rurale in cui centrale era il ruolo della terra e della piccola proprietà; una casa ed esigui appezzamenti conservavano una funzione fondamentale nel garantire la sussistenza, nell’assicurare il flusso dei crediti, addirittura nella gestione delle questioni politiche e dei conflitti legati al prestigio locale[2]. La scarsa produttività agricola dei terreni montani, insufficiente a consentire in molti casi la sopravvivenza, era compensata da strategie d’emigrazione stagionale e da una serie di attività di corredo al lavoro agricolo tra cui spicca la lavorazione delle lane. Grazie alla produzione di tessuti, anch’essa rivolta in parte all’autoconsumo e strutturata su base domestica, molte famiglie trovavano un’importante fonte di apporto al reddito nella vendita del surplus di panni lana sul mercato o ai commercianti locali. Proprio la figura del mercante imprenditore, che acquistava porzioni rilevanti della produzione, da lui stesso spesso commissionata ai lavoranti domestici, si delinea di fondamentale importanza per le sorti dello sviluppo manifatturiero biellese; esterni al processo produttivo (ad eccezione della follatura e della tintura dei panni), essi investivano nell’acquisto della materia prima e controllavano i canali di commercializzazione, avevano relazioni con le città e la capitale del regno sabaudo ed esportavano quote dei loro prodotti al di fuori dei confini dello Stato[3]. Questo schema produttivo, che può ritenersi valido per tutto il corso del Settecento, aveva permesso al Biellese, accanto ad altre aree piemontesi, di emergere come uno dei poli di rilevanza per lo sviluppo di attività protoindustriali nella lavorazione delle lane.
Fu proprio il crescente dinamismo di alcuni mercanti-imprenditori, tra cui il citato Pietro Sella, e la conformazione del territorio, ricco di corsi d’acqua con salti funzionali all’utilizzo dell’energia idraulica, a permettere l’introduzione dei primi macchinari nel ciclo produttivo tessile e a innescare il lento e travagliato passaggio dal mondo rurale al mondo di fabbrica che qui si vuole trattare.
L’introduzione delle macchine aveva messo in discussione il secolare sistema produttivo su base domestica e la tradizionale organizzazione del lavoro ancora riferente agli ordinamenti corporativi dell’età moderna. Le nuove strategie di produzione manifatturiera richiedevano di fatto l’accentramento della manodopera in grandi opifici e forme più rigide nella gestione del lavoro; in tal modo il lavorante che fino a qualche anno prima era impiegato nella produzione domestica – che soggiaceva a tempi ed esigenze proprie del singolo, spesso strettamente legati alla stagionalità del lavoro agricolo, ma anche alla fluttuazione del mercato delle stoffe – si trovava ora occupato in grandi fabbriche come operaio salariato e dipendente, privo ormai della possibilità di gestire in modo autonomo i propri tempi di lavoro, e anzi assoggettato alla rigida disciplina dei regolamenti di fabbrica. Il progressivo accentramento delle fasi di produzione delle lane iniziato con le lavorazioni che richiedevano maggior manodopera e strumenti più complessi, come la follatura e la tintura, progredì fino a interessare – con l’arrivo dei telai meccanici – anche la tessitura, da sempre svolta su base familiare da lavoratori autonomi (con piccoli telai di proprietà). Ne conseguivano perciò cambiamenti di tale portata da mettere in crisi non solo un sistema produttivo e una concezione del mondo del lavoro, ma addirittura in grado di porre in discussione le dinamiche e l’organizzazione su cui era fondata la stessa società delle vallate biellesi.
A questo riguardo è importante sottolineare che i mutamenti appena citati, i quali portarono comunità – come quella biellese – principalmente agricole e artigiane a connotarsi come società industriali, di fabbrica, furono tutt’altro che immediati o di breve durata; al contrario questa «rivoluzione» è caratterizzata da criticità complesse e da problematicità dovute al perdurare sul lungo termine di un incontro-scontro tra tradizioni, usi e costumi del mondo moderno con dinamiche proprie del mondo contemporaneo.
La commistione tra eredità del passato e trasformazioni del presente è particolarmente evidente nell’analisi della questione operaia biellese e delle motivazioni principali che stanno alla base del conflitto tra lavoratori e industriali. Le necessità e i paradigmi imposti dalle nuove logiche produttive, l’inquadramento in fabbrica, tendevano a collidere su più fronti con quella che era la concezione del lavoro radicata tra la manodopera impiegata negli opifici tessili, generando uno scontro che non dipendeva esclusivamente da questioni salariali o di orario[4]. Per l’appunto, come si riscontra molto bene nell’ambiente biellese, i motivi di attrito e di malcontento traevano spesso origine da violazioni di norme o di usanze che gli operai faticavano ad abbandonare. In particolar modo apparivano difficili da digerire i nuovi tempi di produzione che la fabbrica imponeva; l’introduzione di rigidi orari di entrata e di uscita, associati a pesanti multe in caso di ritardi o di assenze, il sempre più stretto legame tra tempo e salario con il progressivo inserimento di quote minime di produzione anche per i lavoratori a cottimo e il passaggio da una retribuzione per pezza di tessuto a una per colpo di telaio[5], l’incremento continuo dei controlli sui momenti di pausa e sui ritmi dell’attività produttiva, generavano profondi disagi in operai cresciuti con una concezione dell’occupazione strettamente legata all’autonomia, alle tempistiche del mondo naturale e agricolo, della comunità e della famiglia. Si pensi per esempio alla consuetudine profondamente radicata nel Biellese di non lavorare il lunedì, prolungando la festa della domenica; i lavoratori rivendicavano tale usanza come un loro diritto, scontrandosi inevitabilmente con gli imprenditori che volevano imporre tempistiche precise alla produzione. Allo stesso modo erano maldigerite le ingerenze dei proprietari degli opifici sul metodo di lavoro del singolo tramite l’emanazione di pesanti regolamenti di fabbrica; venivano multati e ridotti al minimo i momenti di riposo e la flessibilità degli orari, vietata la possibilità di bere durante il lavoro, pesantemente sanzionati gli errori di produzione.
Tutti questi gravami e impedimenti però – è fondamentale sottolinearlo – non vanno superficialmente visti come figli di una nuova logica produttiva industriale, ma al contrario per la maggior parte scaturivano dalla revisione o parziale modifica di regolamenti e logiche corporative di antica eredità, fortemente radicate nella comunità biellese. I vincoli contrattuali che univano operaio e padrone, in un regolamento come quello del Lanificio Sella[6], tra i primi a essere redatti nel 1826, ricordavano da vicino i legami stabiliti dalla normativa delle corporazioni; allo stesso modo molte delle multe previste dai regolamenti di fabbrica richiamavano le più comuni sanzioni corporative come quella per il lavoro malfatto, considerata una delle colpe più gravi.
A ulteriore prova di quanto visto finora, il persistere di logiche antiche era riscontrabile anche nella gestione delle assunzioni e dell’ingresso al lavoro di fabbrica. Soprattutto tra i tessitori, i capi operai conservavano un importante potere di controllo sull’accesso alla professione riconosciuto dagli stessi industriali; si arrogavano infatti il diritto di selezionare i futuri tessitori, che erano rigorosamente scelti all’interno della cerchia comunitaria e principalmente tra i discendenti di operai già impiegati in questo settore, come era uso tra i maestri delle corporazioni scegliere i propri apprendisti tra i figli dei propri membri. Questa facoltà di decisione, così come la lunga trafila di qualificazione richiesta all’operaio erano frutto di un interesse convergente tra le parti in conflitto per restringere artificiosamente il mercato del lavoro qualificato; tal modo di procedere permetteva ai tessitori la gestione dell’occupazione, ad esempio con l’accesso ereditario alla professione, e scongiurava l’utilizzo di manodopera esterna, mentre l’imprenditore vedeva garantita l’abilità del lavorante e più di tutto la pace sociale dell’impresa, tramite l’efficienza e il controllo dei lavoratori garantito dalle gerarchie operaie/corporative.
Per concludere, al fianco del sistema industriale in formazione, continuava perciò a convivere il retaggio di una tradizione i cui residui si possono ancora osservare nei primi decenni del Novecento[7]; per tutto l’Ottocento dunque le resistenze – e gli scioperi poi – da parte degli operai, piuttosto che ricerca di condizioni di lavoro favorevoli, sono da considerarsi come il tentativo estremo di fermare l’erosione dei diritti consuetudinari – regole e forme di tutela, spesso non scritte – che per secoli avevano governato le comunità di villaggio e il sistema occupazionale ora minacciati dall’avanzare della manifattura industriale. Non a caso, l’attaccamento alle tradizioni d’indipendenza nei confronti dell’orario e dell’autonomia nell’organizzazione del lavoro, che vedevano i tessitori biellesi fare festa al lunedì, assumere i propri apprendisti e rivendicare ciò come un diritto, invece che indebolirsi si rafforzò nella fabbrica capitalistica, a mano a mano che i tessitori dovettero fare i conti con l’intensificazione dei ritmi e l’avanzare del telaio meccanico[8]. La consuetudine dopotutto costituiva una potente forza morale e collettiva che doveva salvaguardare i lavoratori dal peggioramento delle condizioni di lavoro, fosse questo espresso in termini di prezzo, di tempo, o di quantità di produzione e di fatica[9]; essa andava difesa a costo di scioperi o rivolte.
Le contraddizioni e le problematiche fin qui trattate, che in termini generali accumunano i processi d’industrializzazione di tutta l’Europa occidentale, videro la loro prima esplosione in Italia proprio nel Biellese, come emerge da tutta la serie di scioperi di fine Ottocento che destarono l’attenzione e la preoccupazione del governo centrale sulla questione sociale e operaia di queste lontane vallate alpine.
[1] S. Ortaggi Cammarosano, Libertà e servitù. Il mondo del lavoro dall’ancien régime alla fabbrica capitalistica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1995, p. IX.
[2] F. Ramella, Terra e telai, Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento, Torino, Rinaudi, 1984, p. 27.
[3] Id., p.28.
[4] Drage Geoffrey, La questione operaia in Italia, da La questione operaia nei principali stati del continente europeo e d’America, Great Britain, Royal Commission on Labour, 1890, pp. 286-311; Cfr S. Ortaggi, op. cit., pp. 8-13.
[5] G. Serravalli, Incióu sü tüt. La parabola di un capitalismo prepotente. Biella 1850 – Maratea 1969, Rosenberg & Sellier, Torino, 2018, p. 108. Tra il 1869 e il 1870 vi fu tra gli imprenditori biellesi il tentativo di generalizzare un nuovo sistema di calcolo del cottimo in tessitura, già introdotto in alcune fabbriche, particolarmente sfavorevole agli operai: cottimo per colpo di telaio anziché per pezza di tessuto. “Passando a pagare i tessitori per colpo di telaio, si rendeva ancora più stringente il controllo sul lavoro, si ottenevano ulteriori aumenti di produttività, si riduceva ogni residua autonomia sui ritmi e sui tempi”.
[6] Il Regolamento del Lanificio Sella di Mosso Santa Maria, detto “dei sette dolori” (1826), recitava: «nessun operaio sarà ricevuto in fabbrica, salvo che si sottometta ad osservare il presente regolamento con le seguenti penali generali, particolari obblighi infraspecificati a ciascun mestiere in particolare». L’analogia tra i vincoli del regolamento Sella e quelli della tradizione corporativa è richiamata da Franco Ramella, op. cit., p. 55. (Cfr. Atti della Federazione industriale piemontese. Lega industriale di Biella in «Bollettino della Lega industriale. Organo ufficiale della Federazione industriale piemontese», II, 12, dicembre 1908, pp. 158-162, a p. 160. Il testo del regolamento della fabbrica Sella & C. di Crocemosso è riprodotto integralmente in Guido Quazza, L’industria laniera e cotoniera in Piemonte dal 1831 al 1861, Torino, Museo Nazionale del Risorgimento – Palazzo Carignano, 1961, pp. 156-162; per una riproduzione parziale cfr. Pietro Secchia, Capitalismo e classe operaia nel centro laniero d’Italia, Roma, Editori Riuniti, 1960, pp. 73-75).
[7] Dall’analisi delle testimonianze orali, raccolte dal Centro documentazione della Camera del Lavoro di Biella nel 1990, di molte lavoratrici tessili impiegate nei lanifici biellesi tra gli anni ’20 e gli anni ’60, appare evidente la persistenza di norme e consuetudini ereditate dal passato: sono ancora attive le multe per il lavoro malfatto, così come per l’assunzione in fabbrica, soprattutto in tessitura, conserva un importante ruolo la mediazione di altri membri della famiglia già impiegati in quel settore.
[8] S. Ortaggi, op. cit., p. IX.
[9] Id., p. 162.