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Da L’ultima seta dell’Ancien Régime alla filanda di Oropa
[di Danilo Craveia, “Eco di Biella”, 11 dicembre 2023]
Un teologo di una famiglia di banchieri affitta il filatoio da seta nel 1784
I Maggia, i Coppa i Gromo, tutti attivi nella filanda di Oropa lungo il Cervo
Attorno ai bachi biellesi si muoveva la finanza sabauda e la protoindustria locale
Giovedì 14 dicembre 2023 ha aperto i battenti la mostra sulla seta allestita presso il Lanificio Maurizio Sella. Tra gli altri elementi d’interesse, “SETA. Luoghi e archivi dell’arte serica” riporterà idealmente bachi e gelsi in antichi luoghi di trattura e di torcitura. In quegli spazi oltre Cervo, tra il XVII e il XIX secolo, il Biellese sperimentò un’esperienza diversamente tessile, non laniera. Citati in questa pagina, meritano uno studio specifico, i Coppa, imprenditori serici tra Sette e Ottocento. Giovanni Antonio e Giuseppe Coppa, padre e figlio, puntarono non sulle pecore, ma sui filugelli. Dapprima nella filanda del Santuario di Oropa, che divenne il Lanificio Maurizio Sella, poi altrove. Nel 1821, per esempio, Giuseppe Coppa scrisse al Comune di Biella che intendeva “formare una vasta filatura da bozzoli atta a dar lavoro a cento, e più operaij nella di lui cassina denominata il Priorato, sita in confinio della strada che tende dal già Monastero di Santa Caterina al Ponte Nuovo”. Nell’Ottocento, però, malgrado svariate iniziative artigianali e qualche exploit imprenditoriale, la seta biellese registrò un inesorabile declino. Ma quel declino, dove anche le donne ebbero un ruolo rilevante, resta una bella storia ancora tutta da raccontare.
Di lì a poco sarebbe cambiato tutto. La Francia, l’Italia e l’Europa sarebbero andate a fuoco. La Rivoluzione Francese era alle porte, Napoleone appena oltre. Una fase inquieta raccontata, tra le righe, da un documento che, dall’Archivio Storico del Santuario di Oropa, ci riporta alla Biella proto-industriale dell’ultimo Settecento. Sulla sponda del Cervo che sale a San Gerolamo sorgeva, ormai da un secolo, il filatoio da seta e il lanificio che la Congregazione Amministratrice del Sacro Monte di Oropa aveva voluto per impiegare i cospicui suoi capitali. Si trattava di un’attività fruttuosa, ma anche virtuosa. Albergare e far lavorare la gioventù indigente della città altrimenti oziosa e, di conseguenza, viziosa, se non criminosa. La prima pietra fu posta il 10 giugno 1695 e, da allora, diversi locatari si erano avvicendati alla conduzione della filanda da seta e del lanificio. Il 3 gennaio 1784, questa la data dell’atto in esame, si procedeva a un ulteriore “affittamento”.
Gli amministratori di Oropa si erano radunati al Piano di Biella, nel salone della casa dei nobili Fantone, alle cinque pomeridiane, ora di Francia, di fronte al notaio Decaroli, cancelliere della Curia. Cedevano in locazione quanto sopra al teologo torinese don Amedeo fu Andrea Maggia. Un prete imprenditore disposto a investire su quella fabbrica che, tutto considerato, era costata tanto e aveva reso poco, ma che aveva tutte le carte in regola per rivelarsi un discreto affare, se condotta adeguatamente. Quel documento è l’ultimo dell’Ancien Régime a trattare di quell’opificio che, giusto mezzo secolo dopo, il Santuario di Oropa venderà ad Agostino Crolle e a Maurizio Sella, dando inizio a tutt’altra storia. Il teologo Amedeo Maggia e suo fratello, nonché collega, Paolo erano proprietari della Continassa, grande cascina con filanda da seta posta sulla strada che da Torino corre a Druento (oggi è sede del Training Center della Juventus). Per dire che teologia e imprenditoria possono essere complementari. Per dire che don Maggia aveva (o avrebbe dovuto avere) una certa esperienza di seta e di stabilimenti per lavorarla. Si arrivava a quel 3 gennaio 1784 dopo che, il 15 maggio 1773, gli immobili e i macchinari erano stati affittati a Giovanni Antonio Coppa di Biella per dodici anni. Il Coppa, in quello stesso giorno, aveva subaffittato tutto quanto a due banchieri di Torino, Giuseppe Berardi e Guglielmo Maggia, quest’ultimo fratello dei citati teologi. I Maggia erano di casa su quel tratto del Cervo, visto che il banchiere Andrea fu Guglielmo Maggia, originario di Pettinengo e padre dei tre fratelli suddetti, almeno dal 1724 era stato affittuario del filatoio da seta. E tale affitto era durato fino al 1772, quando gli era subentrato Giovanni Antonio Coppa. La locazione del Coppa fu complicata dal fallimento dei banchieri Berardi e Maggia che si erano prestati a fornirgli garanzia per un capitale piuttosto ingente ricevuto in prestito dalla locatrice Congregazione Amministratrice del Sacro Monte di Oropa. La situazione era quindi articolata e fluida, e non priva di incertezze quando il teologo Maggia si aggiudicò la filanda da seta e il lanificio. Chi era creditore/debitore di chi? Quali prospettive reali c’erano di rientrare dei debiti e di recuperare i crediti? L’unica praticabile era lavorare. E la fabbrica, per rendere, doveva essere in condizioni di perfetta efficienza (“la manutenzione delle ruote principali degl’alberi dette dell’imballatrone, alberi e canali inservienti alli detti edfizi del filatore, come altresi quello del canale conducente l’acqua al follone, e scaricatore del medesimo”, dove “imballatrone” si legga baratrone, era a carico della Congregazione Amministratrice del Sacro Monte di Oropa) e di tranquillità gestionale, ma i tempi che correvano non promettevano niente di buono. Ecco perché una delle clausole del contratto del 3 gennaio 1784 prevedeva gli scenari peggiori cercando di tutelare le due parti. “In caso di peste o guerra guerreggiata nel Piemonte, il ché Dio non voglia, in maniera tale che sia impedito al suddetto Signor Affittavole l’uso di detto filatore sia in faccoltà del medesimo di recedere da tale affittamento, denunciando il caso fra giorni quindici, dopo quello arrivato e passato detto impedimento sia il suddetto Signor Affittavole tenuto come così al modo suddetto, e per se, e per suoi promette, e s’obbliga di ripigliare sotto le primiere obbligazioni”. La Congregazione Amministratrice del Sacro Monte di Oropa aveva fatto affiggere gli opportuni “tiletti” per invitare all’incanto per la locazione e, in data 6 dicembre 1783, si erano valutate le offerte di Giovanni Antonio Gromo (i Gromo erano anch’essi attivi in quell’opificio, ma sul fronte laniero, fin dai primi anni del Settecento) e del teologo Maggia, che risultò vincente con 3141 lire di canone annuo.
Dal 1° di aprile 1785 avrebbe condotto lui l’opificio da seta e da lana (con Giovanni Antonio Coppa a garantirlo da sigurtà, tanto per ingarbugliare ulteriormente la matassa…). I fili di seta si intrecciavano con la fragile finanza subalpina e, più ancora, con le strategie commerciali e produttive della borghesia locale ancora legata alla dimensione artigianale, o poco più. Mancava, prima ancora della struttura produttiva, la mentalità industriale. E difettava il credito capace di sostenere le idee e gli “ordegni”, l’acquisto delle materie prime e il commercio dei prodotti finiti. La lana poggiava su basi più solide, ataviche, autoctone. La seta, invece, era un corpo estraneo. Gelsi e bachi biellesi erano un fenomeno recente, invasivo, a tratti remunerativo, ma minoritario e periferico rispetto ad altre aree del Piemonte e, soprattutto, a Torino. Proprio da Torino veniva don Maggia per tentare di trarre profitto da “due edifizij cioè uno di filatore da seta con filatura, e cocconera e l’altro di lanificio, con tintoria, follone, e magazzeno”. La “cocconera” era il deposito dei bozzoli (“cocon”) che dovevano alimentare la trattura (filatura) e la torcitura della filanda. Oltre a questo, c’erano vari altri “membri e siti”, ma anche il giardino e le pertinenze, il canepale, il “gran cortile nel centro di dette fabbriche”, l’abitazione civile e le “altre camere per l’alloggio de’ lavorieri”, i sotterranei e stabili rustici accessori. Verosimilmente il locatario avrebbe affidato la conduzione di entrambe le unità produttive a qualche tecnico del settore specifico, magari al Coppa per la seta e al Gromo per la lana. Si taceva, nel contratto, di quel che era stato l’Albergo di virtù.
Quei “lavorieri” sembrano operai salariati, e non giovinetti miseri necessitosi della faticosa carità del Santuario di Oropa. Tuttavia, al capo terzo dell’accordo, il locatario si impegnava a “esercire detti edifizij da buon padre di famiglia giranti, ed in buon stato, come si ritrovano al presente, e fare travagliare in detti due edifizij si e come si è pratticato nella cadente locazione, e ciò per vantaggio, e benefizio de’ poveri e del pubblico”. Forse, nascosto tra la carta di stracci e l’inchiostro del cancelliere Decaroli, l’Albergo di virtù esisteva ancora. Lì accanto, come sempre, scorreva il Cervo che dava moto ai meccanismi. Il documento ne evoca la potenza. “Ove per innondazione, o per altro accidente venisse a rompersi il trivolo ossia schiusa che resta inferiormente al ponte della Maddalena, ed a traverso del fiume Cervo, per mezzo di cui s’introduce l’acqua nella roggia avanti accennata, e così dà l’acqua in servizio de’ suddetti edifizij, non potrà il Signor Affittavole per il corso di giorni venti successivi non decorra l’acqua in detta roggia” pretendere sgravi sull’affitto. Se il danno fosse stato più grave e di maggior durata il periodo di non alimentazione idraulica, l’affittuario avrebbe potuto accampare diritti di deduzione del canone in risarcimento. Il torrente dava e il torrente toglieva. Asportava le opere di presa e la roggia con troppa frequenza per non contemplare quegli eventi nel contratto d’affitto. Certo, era nell’interesse della proprietà riparare i guasti nel minor tempo possibile, ma le piene avevano effetti imprevedibili e serviva una clausola d’equilibrio. C’è anche questo in quell’unico manoscritto: la natura dei luoghi che condizionava l’esito di un’impresa. La seta è sparita. Ha resistito fino alla Restaurazione, e oltre, poi è sparita. La lana, invece, è rimasta in quegli stabili e da quella lana, marca Sella, è nato il credito capace di sostenere l’industria. Quella del 3 gennaio 1784 fu l’ultima seta biellese dell’Ancien Régime.