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Da Meglio della lana, la seta biellese ai tempi di Napoleone
[di Danilo Craveia, “Eco di Biella”, 4 marzo 2024]
I Coppa, padre e figlio, conduttori del filatoio del Santuario di Oropa.
La seta avrebbe potuto prendere il posto della lana nel Biellese?
I lanifici chiudevano, mentre la seta era tutta “autoctona”.
La mostra “SETA Luoghi e archivi dell’arte serica” allestita presso il Lanificio Maurizio Sella sta per chiudere i battenti (10 marzo 2024), ma c’è ancora il tempo per visitarla. Per scoprire che la produzione “autoctona” della seta è stata per il Biellese un’esperienza ormai remota, ma molto importante. Uno dei “pezzi” più interessanti è il “Registro Filatura Seta” tenuto da Francesco Sella (1819-1895, figlio di Maurizio) tra il 1838 e il 1842.
Quel documento, che riporta i dati della produzione quali-quantitativa quotidiana, attesta che la seta non uscì subito di scena una volta arrivati i lanaioli mossesi, ma fu lavorata ancora per qualche anno. D’altro canto, l’acquisto dell’opificio non aveva portato immediatamente alla rimozione del suo glorioso passato serico. La seta poteva rappresentare un’opzione? Forse Francesco Sella credeva che le due lavorazioni potessero convivere. O, forse, c’era della manodopera qualificata (tredici-quattordici di donne che sgobbavano dal lunedì al sabato, ma solo per i tre mesi estivi, forse le ultime ospiti dell’antico Albergo di Virtù?) che valeva la pena di mantenere in attività? Come nei decenni e nei secoli precedenti, la materia prima (i bachi) e il suo cibo (i gelsi) erano reperibili sul posto o poco lontano.
Quando, il 3 Pratile Anno IX Repubblicano (cioè il 23 maggio 1801) il Prefetto del Dipartimento della Sesia, Felice San Martino della Motta, pubblicò il suo ordine relativo alla produzione e al commercio della seta, il filatoio lungo il Cervo era in mano ai Coppa. C’era qualche difficoltà nell’approvvigionamento idrico (la roggia derivata dal Cervo andava sistemata) ma, malgrado la situazione contingente, le cose non andavano poi tanto male. La presenza di quella famiglia di imprenditori quali affittuari della filanda da seta del Santuario di Oropa era già allora di lunga data. Giovanni Antonio Coppa era diventato locatario del filatoio da seta e del lanificio nel 1773 in forza di un’alleanza imprenditoriale con i banchieri Maggia e Berardi di Torino (a loro volta, in precedenza, affittuari delle stesse fabbriche) e in virtù di un credito a riscatto di ben 50.000 lire concessogli dal Santuario di Oropa. Il 13 maggio 1773 aveva fatto la sua offerta, risultata vincente su quella dello speziale Paolo Bora, e l’8 dicembre seguente la locazione aveva avuto la benedizione da parte del vescovo di Biella. Nel 1777 i banchieri di cui sopra erano andati falliti. In quella situazione la fideiussione che avevano prestato a favore di Giovanni Antonio Coppa non aveva più valore e l’imprenditore biellese si trovò da solo a far fronte al debito contratto a favore della proprietà degli immobili che affittava, cioè il Santuario di Oropa, e al canone d’affitto di 2.300 lire l’anno, che non era cifra di poco conto. Nel 1784 (come si è scritto nel precedente articolo su questo tema, uscito l’11 dicembre scorso) era arrivato, in subaffitto, il teologo torinese don Amedeo fu Andrea Maggia a occuparsi della seta, e i Coppa si erano tenuti il lanificio. Nel 1797, quando Vittorio Amedeo III aveva già da un anno sottoscritto l’armistizio di Cherasco e si era portato in esilio in Sardegna lasciando il regno in mano ai francesi, quando Carlo Emanuele IV era già da mesi il re-fantoccio di quel regno che, di fatto, non esisteva più, i Coppa restarono i soli conduttori dei due opifici. L’ultimo dei Maggia aveva lasciato le sponde del Cervo.
I Coppa erano arrivati quando il Régime era ancora quello “ancien”, precedente alla Rivoluzione Francese e all’avvento di Napoleone. I Coppa, nella loro persistenza durata almeno due generazioni, videro e vissero gli stravolgimenti della fine del XVIII secolo e dell’inizio del XIX, rimanendo in qualche modo al loro posto e garantendo una sostanziale continuità operativa allo stabilimento. Una continuità che a molti lanifici e ad altre manifatture (come quelle dei cappelli) non era stata possibile. Tra l’inverno e la primavera del 1802, il Sous-Préfet de l’Arrondissement di Biella, Pierre Bavouz, scrisse ai fabbricanti attivi sul territorio di sua competenza per avere notizie circa le rispettive capacità di produzione finalizzata alle commesse militari. I lanifici erano in ginocchio. La materia prima era difficile da reperire e quella disponibile, anche per le tasse doganali, era inaccessibile per il prezzo in costante aumento. Giovanni Bernardo Rubino Romano, che da meno di un anno (3 giugno 1801) era diventato l’affittuario del lanificio contiguo al filatoio da seta del Santuario di Oropa, rispose di “aver fermato la fabricha”. E la ragione era questa: “Ora in Piemonte non si trovano lane, e non conviene tirarle dall’estero, stante la forte dogana, mentre per lo passato le lane, e droghe, per tintura destinate per le fabriche, non pagavano diritti di dogana. Ora li fondi di fabricha sono in crediti, ed in beni nazionali statali dalle finanze ceduti in paga delle merci soministrate. Per li quali mottivi non si può proseguir la fabricha, e se non si facesse dalla Nazione qualche antecipata non potrebbero accettar imprese per servir le truppe”. Dall’altra parte del cortile, Giuseppe Coppa, figlio di Giovanni Antonio, non aveva di questi problemi. La scelta di tenere la seta e di lasciar andare la lana si era rivelata assennata. Così potè rispondere al Sotto-Prefetto Bavouz in questi termini: “Il sottoscritto Giuseppe Coppa, affittavole della Filatura da Seta propria dell’Ospizio d’Oropa sita sulle fini di questo Comune, ed alle sponde del fiume Cervo dichiara essere la medesima composta di fornelletti numero cinquantuno, dei quali non saprebbe per ora precisare il numero impiegando. Li impiegherà tutti od in parte secondo le circostanze occorrente. Qualora il totale d’essi venisse ad essere tutto girante, s’impiegherebbero centoventi e più giornalieri, e conseguentemente un minor numero a proporzione dei fornelletti, che potrebbero per vari incidenti essere vacanti”. Era il 17 Pratile dell’Anno Decimo Repubblicano. La lana non c’era (più).
Quella autoctona non era sufficiente per qualità, ma più ancora per quantità. La nostrana rivoluzione industriale non era ancora cominciata e già le manifatture laniere biellesi dipendevano pressoché totalmente dalle importazioni delle materie prime. Certo, quella di cui si tratta era una situazione straordinaria, ma il principio generale si coglie per valido. Le pecore biellesi, probabilmente già sacrificate per usi alimentari o requisite dagli eserciti, avevano smesso da tempo di alimentare anche solo parzialmente la filiera laniera locale. Quando Pietro Sella, nel 1816-1817 porterà nel Biellese la rivoluzione industriale, lo farà con macchine straniere che avrebbero lavorato materie prime straniere. Le prime rappresentavano la novità, le seconde l’abitudine. La seta, invece, era prodotta in loco e questo cambiava del tutto il paradigma. La capacità produttiva del filatoio condotto da Giuseppe Coppa era minima e, comunque, si trattava di un semilavorato. E di certo i soldati di Napoleone non potevano indossare uniformi di seta, ma l’opificio poteva “essere tutto girante”, senza intoppi doganali o di altra natura. I gelsi piantati nei due secoli precedenti e i bachi allevati da altrettanto tempo nel Biellese bastavano e avanzavano per dare lavoro a un cospicuo numero di addetti (tra cui le giovani donne dell’Albergo di Virtù che era a tutti gli effetti ancora in esercizio). Giuseppe Coppa era nella condizione di poter mantenere attivo lo stabilimento (anche per particolari commesse militari) senza contravvenire all’ordine della Prefettura di Vercelli, anzi sfruttandone appieno i dispositivi. Il divieto di esportazione delle “galette” (bozzoli) permetteva di avere a disposizione la materia prima prodotta nel Biellese. L’obbligo della consegna dei bozzoli raccolti e destinati (fatta la cernita di quelli tenuti per la semenza) alla fabbrica offriva, almeno in teoria, una fornitura costante, grande o piccola che fosse. Quelle particolari circostanze avrebbero potuto condizionare profondamente lo sviluppo della manifattura biellese. Altri avrebbero potuto abbandonae la lana per puntare sulla seta che, a ben vedere, offriva garanzie assai più solide di quelle associate alla lana. I gelsi e i bachi biellesi potevano sostituire le lane provenienti da lontano? La manifattura laniera biellese, che pure aveva vissuto un XVIII secolo piuttosto difficile (tra arretratezza tecnologica, debolezza economica e improvvide scelte legislative), subì un colpo durissimo durante il periodo rivoluzionario-napoleonico e solo l’audacia di Pietro Sella aveva potuto invertire la tendenza trasformando una agonia in una rinascita. Ma se la seta, proprio in quei disastrosi cinque lustri (1790-1815), si fosse imposta a discapito della lana? Como e Lione avrebbero consentito la formazione di un “terzo polo” serico all’interno di un segmento d’Europa lungo meno di trecento chilometri in linea d’aria? Una buona domanda che, ovviamente, rimarrà senza risposta, ma che evidenzia la suggestione di uno scenario che la dinamica geopolitica continentale napoleonica aveva disegnato anche su scala minima condizionando persino l’appartato Biellese. Nel 1807, sparito anche il Rubino Romano, i Coppa tornarono in possesso anche del lanificio, per quanto la situazione laniera non fosse migliorata, anzi. Nel 1810, la “soit la fabrique de la filature en soie, moulinage et coconera, soit l’atelier de lainerie” furono nuovamente affittati a Giuseppe fu Giovanni Antonio Coppa per un novennio, al termine del quale rinnovò la locazione per un ugual periodo, fino alla cessione a Pietro Zumaglini che, il 3 gennaio 1828, era già il nuovo locatore. Per sessant’anni padre e figlio Coppa furono attivi nel settore serico dimostrando che già in passato esisteva un possibile diverso destino tessile per il Biellese.