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Da Rivista Biellese di ottobre 2014
Alcune specie animali e vegetali provenienti da altri continenti sono giunte in Italia grazie ad un legame con lana e seta. Il senecio sudafricano, il fungo Clathrus archeri e l’ailanto hanno trovato nel Biellese un habitat adatto al loro proliferare […]
Matteo Negro
Per quanto riguarda i canali di introduzione se ne possono distinguere almeno tre:
• La fuga accidentale: molte specie di piante o animali vengono importati da lontani paesi per abbellire giardini e parchi. Successivamente si disperdono nelle aree limitrofe colonizzando gli ecosistemi naturali. I casi più eclatanti riguardano la robinia, lo scoiattolo grigio, ecc.
• Introduzioni accidentali: è il canale di introduzione più comune per le specie di invertebrati terrestri o per molte specie di piante erbacee. In questo caso i più disparati mezzi di trasporto (navi, aeroplani, suole delle scarpe, vestiti, ecc.) fungono da inatteso mezzo di dispersione per un elevatissimo numero di organismi. Queste specie chiamate “autostoppiste” annoverano numerosi esempi molto noti: zanzara tigre, licenide del geranio, cinipide galligeno del castagno, ecc.
• Introduzioni operate intenzionalmente: in questa categoria inseriamo tutte le specie introdotte principalmente a scopo venatorio o alieutico (es. siluro, fagiano comune, silvilago, ecc.), a cui si sono aggiunte alcune specie vegetali introdotte nell’ultimo secolo a scopo di riforestazione.
Risulta chiaro che i canali di introduzione possono essere i più disparati e che esiste uno stretto legame tra le attività antropiche e la dispersione di questi organismi. […]
Tuttavia ci sono alcuni esempi molto interessanti in cui è quasi certo il legame tra il mondo dell’industria tessile e la specie introdotta accidentalmente o intenzionalmente. I casi più interessanti riguardano due piante, una erbacea (Senecio inaequidens) e un’altra arborea (Ailanthus altissima), ed un insolito fungo (Clathrus archeri).
La margherita che non piace ai cavalli
Il senecio sudafricano (Senecio inaequidens) è una pianta erbacea, talvolta arbustiva, appartenente alla famiglia delle Asteraceae; presenta il suo areale originario nella porzione meridionale del continente africano. È stata introdotta accidentalmente in Europa alla fine del XIX secolo attraverso il commercio della lana, probabilmente sotto forma di semi rimasti intrappolati all’interno delle fibre di lana grezza (Bouvet, 2013).
In Italia è giunta nel periodo della seconda guerra mondiale ed è stata osservata per la prima volta nel 1947 a Verona. Dalla seconda metà del XX secolo la sua diffusione è stata inarrestabile e attualmente è presente in tutta Italia ad esclusione della Puglia. Per quanto riguarda la regione Piemonte, le prime stazioni segnalate risalgono al 1974 lungo il fiume Sesia nei pressi di Vercelli (Soldano, 1976). Dal Vercellese si è poi diffusa dapprima nelle zone planiziali e successivamente si è spinta sempre più nelle aree collinari e all’interno delle vallate alpine. Nella zona del Biellese la specie risulta particolarmente diffusa e abbondante dalla pianura alla montagna. La quota massima in cui è stata censita è di circa 1300 m s.l.m. lungo la panoramica Zegna.
Si riconosce facilmente per le caratteristiche e numerosissime infiorescenze a capolino, simili a quelle di una comunissima margherita. Ogni pianta ne può produrre fino ad un centinaio in un periodo di fioritura molto ampio che si protrae solitamente da aprile a novembre. Le foglie sessili sono acuminate, strette e allungate con bordo dentellato.
Nell’arco della stagione vegetativa ogni pianta produce circa 30.000 frutti (chiamati acheni) che si diffondono facilmente nelle aree limitrofe grazie all’azione del vento. La massiccia produzione di semi dall’elevata capacità dispersiva permette al senecio sudafricano di colonizzare velocemente nuove aree soprattutto se molto disturbate, come ad esempio le aree abbandonate, le massicciate ferroviarie e stradali, in cui la competizione con le specie autoctone è ridotta.
Come molte specie aliene invasive il senecio rappresenta una seria minaccia per le specie autoctone determinando una riduzione della biodiversità locale. Ma ciò che preoccupa maggiormente riguarda la sua tossicità nei confronti del bestiame domestico e in taluni casi dell’uomo. Infatti, tutte le parti della pianta (foglie, fusti, fiori e semi) contengono alcaloidi pirrolizidinici ad azione epatotossica (Curtaz et al., 2011).
Gli animali domestici colpiti sono soprattutto cavalli, bovini, suini e galline che possono ingerire il senecio al pascolo o sotto forma di fieno fornito dall’allevatore. Raramente la pianta verde viene selezionata direttamente dagli animali in quanto ha un sapore molto amaro, che si perde con il processo dell’affienamento. L’essiccamento però non elimina le tossine e pertanto, se gli animali vengono alimentati a lungo con fieno contenente senecio sudafricano, gli alcaloidi possono bioconcentrarsi (accumularsi nell’organismo) a livello epatico causando danni al fegato stesso ma talvolta anche a cuore e polmoni. Un animale avvelenato può mostrare sintomi quali perdita di peso, diarrea, problemi neurologici, letargia, ecc.
Solitamente gli effetti più gravi si manifestano nel cavallo (il nome della specie, inaequidens, ricorda infatti la maggior sensibilità degli equidi), che è solito pascolare nelle aree marginali spesso colonizzate dal senecio. È stato calcolato che la dose letale per questo animale domestico sia di 300 g al giorno per un periodo di 50 giorni. Curiosamente altri animali quali ovicaprini, tacchini e ungulati selvatici (cervi) sembrano essere più tolleranti agli alcaloidi del senecio. L’uomo può essere intossicato direttamente per il consumo della pianta erroneamente raccolta in campo o, più frequentemente, indirettamente per consumo di latte o uova provenienti da animali contaminati.
Da un punto di vista normativo il Senecio sudafricano è inserito nella Black List-Management List della Regione Piemonte che comprende «le specie esotiche che sono presenti in maniera diffusa sul territorio e per le quali non sono più applicabili misure di eradicazione da tutto il territorio regionale ma delle quali bisogna comunque evitare l’utilizzo e per le quali possono essere applicate misure di contenimento e interventi di eradicazione da aree circoscritte» (Deliberazione della Giunta Regionale 18 dicembre 2012, n. 46-5100).
Il caso del senecio sudafricano è solo un esempio di quelle che gli anglosassoni chiamano Wool Alien Species, specie provenienti principalmente dall’Australia, Sud Africa e Sud America introdotte accidentalmente con il commercio della lana o direttamente dalle pecore. Negli anni ’60 del secolo scorso nella sola Inghilterra si contavano circa 400 specie che crescevano da semi importati in questo modo (Lousley, 1960). […]
Un esempio particolarmente esplicativo di questo fenomeno riguarda lo Xanthium spinosum. Questa pianta erbacea, appartenente alla famiglia delle Asteraceae, presenta frutti ovalari dotati di fini uncini che favoriscono l’adesione al vello. Dal suo areale di origine sud americano si è diffuso in diverse parti del mondo. L’unico dato di presenza della specie in provincia di Biella risale al 1909 nell’area di Pray e Coggiola; attualmente la specie viene considerata estinta nel Biellese (Selvaggi et al., 2008).
Con l’avvento della pastorizia, caratterizzata dallo spostamento degli animali in nuovi pascoli, e soprattutto in seguito al commercio mondiale della lana, questo fenomeno di disseminazione involontaria di semi di piante alloctone si è intensificato enormemente. Le piante introdotte, in mancanza di competitori naturali, si sono diffuse spesso su vasti territori diventando delle vere e proprie specie invasive.
Il fungo dai lunghi tentacoli
Ma gli alieni introdotti tramite il commercio della lana non sono solo piante, possono anche essere funghi. Il caso più eclatante riguarda l’introduzione del fungo saprofita Clathrus archeri, chiamato dagli anglosassoni Octopus Stinkhorn per la sua inconfondibile forma a polpo e per l’olezzo pungente che emana.
Questa specie, che presenta il proprio areale di origine in Australia e Tasmania, predilige terreni acidi ricchi di materiale legnoso marcescente e si può anche rinvenire in prati, giardini e terreni coltivati.
A partire dalla fine del XIX secolo si diffuse in Nord America, Asia ed Europa sfruttando un passaggio inaspettato, ovvero i sacchi di lana spediti dal continente australiano in diverse filature in giro per il mondo. […]
Nel Biellese il fungo polpo è stato segnalato per la prima volta nell’autunno del 1976 ad opera di Giorgio Bertinaria di Netro, già allora grande appassionato di micologia e tra i fondatori del Gruppo Micologico Biellese. Attualmente risulta piuttosto frequente in diverse aree del Biellese principalmente a causa di un clima relativamente simile a quello del suo areale di origine; è stato segnalato in diverse località tra le quali Candelo, Netro, Sagliano Micca e Mongrando (Bertinaria et al., 2002).
Il fungo polpo emerge da una struttura sferica biancastra di 2-3 cm di diametro, comunemente chiamata uovo, parzialmente infossata nel terreno. Dall’uovo si sviluppa un corpo fruttifero composto da 4 a 6 (eccezionalmente 8) braccia di colore rossastro rivestite da una gleba maleodorante. L’olezzo, che ricorda la carne putrida, ha la funzione di attirare gli insetti, principalmente mosche, fondamentali per la dispersione delle sue spore. È a questa poco attraente caratteristica che si deve la denominazione “dita del diavolo”, particolarmente diffusa in alcuni paesi europei. Il corpo fruttifero dura molto poco, nel giro di qualche ora degenera. Clathrus archeri sebbene non sia tossico viene considerato non edibile. Non vi sono informazioni circa la sua potenziale minaccia nei confronti degli ecosistemi interessati dalla sua inaspettata presenza; per ora viene quindi considerato un sorvegliato speciale.
L’albero del paradiso che scatenò l’inferno
[…]
Gli anglofoni lo chiamano Tree of heaven, i francesi Arbre du ciel, gli italiani Albero del paradiso, Ailanto, Sommaco falso o Sommaco americano; i botanici di tutto il mondo sono concordi nell’identificarlo con il termine scientifico Ailanthus altissima. Questa comunissima pianta arborea caducifoglia, riconoscibile dall’inconfondibile odore sgradevole delle sue foglie, spesso domina molti paesaggi italiani, sia rurali che urbani. Appartenente alla famiglia delle Simaroubaceae l’ailanto è originario delle Isole Molucche, del Nord del Vietnam e della Cina e la sua diffusione in diverse aree del globo, Italia compresa, è legata all’industria tessile della seta.
Venne introdotto per la prima volta in Europa, più precisamente in Gran Bretagna e Francia, nel 1743 da semi inviati dal missionario gesuita di origine francese Pierre Nicolas d’Incarville, che scambiò erroneamente l’ailanto per l’albero cinese della lacca. La diffusione da parte dell’uomo avvenne per motivi estetici (veniva piantato in molti giardini e parchi), per questioni selvicolturali, ma soprattutto per la diffusione della pratica dell’ailantocoltura.
Nella metà del XVIII secolo, infatti, l’allevamento del classico baco da seta (Bombix mori) subì una forte contrazione a causa di una grave malattia, nota con il nome di pebrina (o atrofia parassitaria o mal delle petecchie), causata da un protozoo parassita appartenente al genere Nosema (Badalamenti et al., 2012). Questo parassita si diffuse a partire dalla Francia e raggiunse nel 1854 il nostro paese colpendo duramente gli allevamenti di baco da seta italiani. Di fronte a questa catastrofe l’unico rimedio fu quello di sfruttare una seconda specie di baco da seta, Samia cynthia (fig. 4), introdotta nel 1856 dal frate missionario P. Fantoni. Questo baco viene comunemente chiamato Sfinge dell’Ailanto, e non si nutre del gelso ma appunto dell’ailanto. Ciononostante, l’esperimento dell’ailantocoltura per la produzione di un nuovo tipo di seta durò poco più di un quindicennio grazie ai progressi scientifici di Louis Pasteur che, tra il 1865 e il 1870, trovò un rimedio per contrastare la pebrina e riportare la gelso-bachicoltura ai livelli produttivi di un tempo (Arrigoni della Torre, 2009).
Dopo il fallimento dell’allevamento di S. cynthia l’ailanto continuò ad essere coltivato come albero ornamentale, per la sistemazione di scarpate e per scopi selvicolturali, principalmente legati alla produzione di carbone e cellulosa.
Fra il 1934 e il 1935 la “Milizia Forestale” mise addirittura a dimora circa 4 milioni di piantine allo scopo di rimboschire terreni nudi e degradati (Senni, 1935). Pertanto, sebbene l’introduzione dell’ailanto sia avvenuta per scopi ornamentali/tessili, la successiva enorme diffusione è certamente stata condizionata da altri fenomeni legati alle attività antropiche: come dire… le vie delle piante sono infinite!
Per quanto concerne la nostra regione, se nell’800 in Piemonte non era così diffuso, dall’inizio del secolo successivo le segnalazioni si susseguirono ad un ritmo incalzante. A causa della sua crescita rapidissima e alla capacità di accrescersi in situazioni ambientali e pedologiche estremamente differenti, si diffuse dapprima nei settori collinari e pedemontani e successivamente nelle aree planiziali.
L’ailanto si propaga con grande facilità anche per seme; ogni albero è in grado di produrre decine di migliaia di frutti, chiamati samare, ciascuno con un seme centrale, che si disperdono grazie al vento. L’unica limitazione a questa apparentemente inarrestabile invasione è il freddo; l’ailanto infatti non cresce al di sopra dei 1000-1100 m di quota.
Nel Biellese prospera lungo numerose strade (ad es. via Corradino Sella a Biella o lungo la superstrada Biella-Cossato) e nei giardini abbandonati; ha infatti radici che possono frammentare l’asfalto ed il cemento insinuandosi talvolta nei muri delle case. Questo albero, oltre a rappresentare una seria minaccia per le altre specie arboree, sottraendo loro luce, acqua e sostanze nutritive, è poco apprezzato dall’avifauna (difficilmente gli uccelli costruiscono il nido tra i suoi rami radi) e dai boscaioli per la scarsa qualità del suo legno.
L’ailanto è inoltre una pianta che cerca di conquistare nuovi territori mettendo in campo niente meno che una vera e propria guerra chimica! Il suo apparato radicale infatti è in grado di essudare quelle che in gergo tecnico vengono chiamate sostanze allelopatiche, ovvero composti chimici tossici (il principale composto ad azione fitotossica non selettiva è stato denominato ailantone) che inibiscono la crescita delle altre specie autoctone (Lawrence et al., 1991). Incredibilmente, anche i suoi semi contengono queste sostanze in grado di inibire la germinazione dei semi delle altre specie. L’effetto allelopatico risulta particolarmente accentuato durante le prime fasi di invasione di nuove aree in quanto queste sostanze tossiche inibitrici sono prodotte in grande quantità dai giovani individui rispetto alle piante adulte.
Per tutte queste ragioni l’ailanto è inserito nell’elenco delle 100 specie aliene più pericolose presenti sul territorio europeo, censite grazie al progetto europeo DAISIE (Delivering Alien Invasive Species In Europe), (http://www.europealiens.org) (DAISIE, 2009). È inoltre citato, similmente a Senecio inaequidens, nella Black List-Management List della Regione Piemonte per la gestione delle specie esotiche.
Se l’ailanto è ancora facilmente visibile nel territorio biellese, della Samia cinthia si sono perse invece le tracce? In realtà l’appariscente e grande lepidottero (le femmine possono raggiungere un’apertura alare di 16 cm) vola ancora nel nostro territorio a ricordo di questa incredibile storia legata alla produzione della seta. […]
Matteo Negro